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Il 4 settembre 1904, a Buggerru i minatori si ribellano ai soprusi padronali e decidono di incrociare le braccia. I dirigenti della società francese che gestisce la miniera e le terre circostanti chiedono l’aiuto delle autorità piemontesi che mandano nel piccolo centro della Sardegna sud-occidentale due compagnie di fanteria. Il tragico bilancio finale sarà di tre morti e decine di feriti (secondo alcune fonti i morti sarebbero stati quattro).
L’indignazione generale per l’accaduto porterà alla proclamazione del primo sciopero nazionale della nostra storia. Il 16 settembre, in segno di solidarietà per quanto accaduto, la Camera del lavoro di Milano proclama il primo sciopero generale della storia d’Italia, che si espande a macchia d’olio in tutta la penisola fino al 21 settembre 1904.
Lo sciopero comincia ad attuarsi con larga partecipazione a Milano e a Genova e via via a Parma, Torino, Bologna, Livorno, Roma. Nei giorni seguenti la mobilitazione coinvolgerà Bari, Napoli, Palermo, Catanzaro, Brescia, Biella, Venezia e Perugia. La protesta terminerà il 21 settembre con l’impegno assunto da parte di un nutrito gruppo di parlamentari socialisti a presentare immediatamente in Parlamento una proposta di legge diretta a vietare l’uso delle armi da parte della forza pubblica durante i conflitti di lavoro.
“Nulla sarà più come prima - scriverà Carlo Ghezzi - Giolitti, facendo leva sullo spavento che lo sciopero generale aveva provocato sui ceti moderati e sulle destre, chiese al re di sciogliere le Camere e di indire le elezioni anticipate, poi fece grandi pressioni sui cattolici, fino ad allora astensionisti, perché si recassero alle urne. Nonostante avesse visto notevolmente accresciuti i propri suffragi in ogni parte del paese, nel voto anticipato del 9-11 novembre del 1904 il partito socialista perse cinque deputati in Parlamento. La stagione di innovative aperture politiche e sociali di Giolitti si sarebbe logorata in quel contesto. La breve fase delle aperture del giolittismo si arenerà rapidamente, segnata da incertezze, tatticismi, nuove repressioni e nuove stragi. Avrebbe governato ancora per anni galleggiando e traccheggiando ma senza promuovere riforme o innovazioni politiche. Sarebbe poi giunto a maturare la sciagurata scelta dell’avventura coloniale in Libia che lo riportava verso convergenze con i nazionalisti e i reazionari. La sinistra, dopo lo sciopero generale del 1904, si sarebbe divisa irreparabilmente, sollevando al proprio interno reciproche accuse di opportunismo rivolte ad alcuni per non aver voluto assumere la direzione di quel grandioso movimento di lotta e accuse opposte di avventurismo lanciate dai secondi verso i primi per avere indetto e sostenuto lo sciopero generale. Parimenti si arroventerà la polemica tra le organizzazioni politiche della sinistra e le organizzazioni sindacali”.
“Era chiaramente mancata nel 1904 - prosegue Ghezzi - un’organizzazione centrale capace di coordinare e organizzare il movimento e le sue grandi potenzialità. Le Camere del lavoro e le federazioni nazionali di categoria maturarono così la necessità di uscire da forme fragili di coordinamento, di uscire dal localismo e di darsi definitivamente una sola e forte struttura nazionale di direzione e organizzazione. Nel corso dei successivi due anni avrebbero dato vita alla CGdL, avrebbero fondato quella Confederazione generale del lavoro nata nel 1906 che tanto avrebbe segnato la storia d’Italia nel secolo che abbiamo alle spalle”.
“Quel soggetto confederale che nasce quel giorno - dirà Guglielmo Epifani - è altro e più delle rappresentanze di categoria, professione, arte e mestiere e del mutualismo delle origini. Non è altro perché diverso e non è più perché sovraordinato. Ma perché l’identità confederale richiede inevitabilmente una ricerca permanente di valori e politiche di unità, partendo dalle differenze; e un’idea alta di autonomia comunque espressa nelle alterne fasi che hanno segnato la storia dei rapporti fra partiti e sindacati. Solo un sindacato confederale - quello di ieri e quello di oggi - può tenere unite, dentro di sé, le ragioni dei lavoratori della terra a quelli dell’industria, quelli pubblici e quelli privati, quelli del sud e quelli del nord, gli emigranti e gli immigrati, i giovani che studiano, i disoccupati, gli anziani ed i pensionati. Tutto, proprio tutto, della vita centenaria del sindacato italiano sta qui, in quell’atto, in quella scelta, in quell’inizio. In quell’idea - come ci ricorda Vittorio Foa - per la quale battendosi per i propri diritti si pensa insieme sempre ai diritti degli altri”.