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Al peggio sembra non esserci fine. La storia che vi raccontiamo ci arriva da Ferrara. La protagonista di questa vicenda, un’operatrice ecologica che faceva la raccolta rifiuti porta a porta e da quasi 15 anni lavorava per la Clara, la società che fornisce servizi ambientali per il territorio, si ammala di cancro. Si cura, sembra uscirne, poi ha una ricaduta. A marzo, in seguito al varo del decreto covid che tutela i lavoratori fragili (chiunque sia affetto da patologie croniche o da stati di immunodepressione congenita o acquisita) viene stabilito che la dipendente resti a casa.
“L’azienda – ci spiega Fabio Artosi, funzionario della Fp Cgil estense – somma questo periodo al comporto, il tempo durante il quale, in caso di assenza per malattia o per infortunio, il lavoratore ha diritto a conservare il posto di lavoro. E Utilitalia (l’associazione di categoria che rappresenta le imprese pubbliche del settore), con una interpretazione diversa dalla lavoratrice, conclude che la donna aveva di fatto esaurito il periodo di comporto e che poteva essere licenziata”.
Così, a giugno, l’azienda le blocca lo stipendio, senza per altro comunicarle che la motivazione era lo sforamento del periodo di comporto. “La situazione è paradossale – ci spiega Artosi –, la lavoratrice si ritrova a casa senza paga, ma non essendo stata licenziata non può neanche usufruire della Naspi. Chiediamo un incontro all’azienda. A fine agosto vengo convocato dal direttore generale e dalla responsabile del personale. In quella sede raggiungiamo un accordo, purtroppo soltanto verbalmente, vincolato all’accettazione della dipendente: la società avrebbe licenziato la lavoratrice, ma, non avendole applicato un accordo aziendale firmato nel 2019 e pensato proprio per i lavoratori fragili, a titolo di risarcimento avrebbe integrato la differenza tra l’assegno della Naspi e la busta paga al fine di garantirle lo stipendio pieno per i due anni che le mancavano alla pensione. La dipendente accetta quel giorno stesso, un venerdì. Ma il lunedì mattina mi chiama l’ufficio del personale per dirmi che il direttore generale ha cambiato idea e che non se ne fa più niente. La motivazione è che, a detta sua, sono cambiate le condizioni. Chiedo allora almeno l’applicazione dell’accordo aziendale del 2019 per i lavoratori fragili e quindi il telelavoro per almeno 12 mesi. E anche stavolta, per tutta risposta, ricevo un no senza motivazioni. Tutto quello che le propongono è un’aspettativa di 270 giorni non retribuita. Una proposta che l’avrebbe lasciata ancora e per 9 mesi senza stipendio e senza Naspi, per ovvie ragioni rifiutata dalla signora”. Eccola, un’altra storia inaccettabile di diritti negati, che adesso probabilmente finirà con il licenziamento (a questo punto agognato) e la Naspi. “Purtroppo non è l’unico caso di questo tipo in quell’azienda”, ci dice Fabio Artosi.
La dipendente intanto è in ospedale, non sta bene. Del superamento del periodo di comporto l’ha dovuto sapere dall’Inps, perché l’azienda non le aveva fatto pervenire nessuna comunicazione scritta. E lei, pensando che le avrebbero applicato l’accordo sul telelavoro, aveva anche speso i soldi per dotarsi di un computer e di una connessione internet wifi. Malata e senza una prospettiva, senza uno stipendio da tre mesi, le resta solo l’assurda speranza di essere licenziata per ricevere il sussidio. Con un carico di aspettative deluse da un’azienda alla quale ha dato gli anni migliori del suo impegno professionale e dalla quale, in cambio, ha ricevuto solo schiaffi.