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“Questo non è un futuro da lasciare ai nostri giovani”. Potremmo partire da questa frase di Ugo Bolognesi, della Fiom torinese, e riannodare i fili fino alle ragioni che domani (26 giugno) porteranno le lavoratrici e i lavoratori del Nord a manifestare in piazza Castello insieme a Cgil, Cisl e Uil, e Maurizio Landini. Le altre piazze saranno Firenze e Bari, la rivendicazione è quella di un futuro, ma anche di liberare il presente dalla cambiale in scadenza, il 30 giugno, del blocco dei licenziamenti. Senza una proroga, il credito vantato da molti imprenditori sarebbe un debito insostenibile per la società e darebbe il via a un domino di vertenze che, collassando, distruggerebbero migliaia di posti di lavoro.
Ripartiamo da qui, allora, dalle vertenze, da una, in particolare, quella della ex Embraco, per prendere il polso della situazione.
Per i dipendenti dello stabilimento che produceva i compressori dei frigoriferi Whirlpool, la didascalia perfetta resta uno striscione esposto pure in queste settimane di presidio estremo in Piazza Castello, con la tenda per pernottare e le lettere di licenziamento post datate al 22 luglio e stese al sole come panni sporchi, visto che il governo fa finta di non vedere. Sullo striscione si leggeva: “4 anni, 4 governi, una truffa quella di Ventures, adesso il licenziamento”.
Per i 400 operai ormai è una questione di tempo. “Abbiamo fatto un incontro con Regione Piemonte e con la curatela fallimentare – ci ha spiegato Ugo Bolognesi –. L’obiettivo è avviare l’iter di proroga della cassa integrazione per altri 6 mesi, come previsto dal decreto Sostegni bis. Speriamo non ci siano intoppi, perché senza proroga il 22 luglio, fine della cassa integrazione attuale, sarebbero tutti a casa e resterebbe solo la Naspi”.
La palla è nel campo della curatela: il via libera del tribunale c’è, e c’è pure quello dei creditori. Occorre inoltrare richiesta ai ministeri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, perché la proroga può essere concessa solo alle produzioni di interesse strategico nazionale.
“Ma il problema – ammette con amarezza il dirigente Fiom – non può essere solo lo spostamento del licenziamento al 31 dicembre. Il problema resta la reindustrializzazione. Il progetto Italcomp, messo in campo dal secondo governo Conte e dalla Todde, è fermo al palo. È passato un mese dall’ultima iniziativa con il presidente del Piemonte, Cirio. Un incontro finito con l’invio di una lettera al premier Draghi e ai ministri del Lavoro e dello Sviluppo Economico, nella quale si chiedeva una volta per tutte una soluzione. A firmare la lettera, oltra alla Regione, furono il Comune di Torino, Fim Fiom e Uilm e persino l’arcivescovo. Non abbiamo ricevuto risposte ad oggi”.
Italcomp restava (o resta, a seconda dei punti di vista) l’unica prospettiva concreta non solo per Riva presso Chieri, sede della fabbrica piemontese, ma anche per l’Acc di Mel, nel bellunese, l'altra gamba del progetto. Azienda per la quale i sindacati stanno cercando di scongiurare la chiusura, alla ricerca di quegli investimenti che permettano di tenere in piedi la produzione. “Se non arrivasse Italcomp il rischio potrebbe essere l’ennesima multinazionale”.
Parole e scenari sui quali pesa il silenzio del governo Draghi, completamente scomparso. “Dall’insediamento dell’ex governatore della Bce a oggi – ci dice Bolognesi – abbiamo avuto un solo incontro in videoconferenza il 23 aprile. Un tavolo ottenuto con la mobilitazione e la minaccia di occupazione della prefettura di Torino, ormai più di due mesi fa”.
Quella della Embraco è l’ultima bandiera a mezz’asta di una città che sta perdendo i pezzi. “Torino è in una crisi strutturale di lungo corso. La sua industria non si è più ripresa dal 2008. La pandemia ha solo accelerato processi in corso. Se non agganceremo la transizione verso l’industria del futuro – l’auto elettrica, l’idea di produzione legata alla mobilità sostenibile – vedremo salire nei prossimi anni il numero delle aziende che chiudono, il numero dei disoccupati e si farà sempre più concreta l’impossibilità per un giovane di crearsi una vita a Torino”. Questa città, meta in altro secolo dei sogni dei meridionali a cui molti non volevano affittare casa, ha oggettivamente un problema di emigrazione, non di immigrazione. “E la cosa pazzesca – sottolinea il dirigente Fiom con rabbia – è che avremmo tutte le condizioni per fare industria. Pensate al politecnico, all’università, dentro a Mirafiori abbiamo la Facoltà di Ingegneria dell’automobile, lì si laureano giovani che poi vanno all’estero a lavorare. Qui abbiamo tutta la filiera, dall’idea al design, alla progettazione, alle parti estetiche di carrozzeria, alla meccanica…più che di cassa integrazione dovremmo parlare di formazione alle nuove competenze e di ricambio generazionale. E invece l’età media a Mirafiori è di 53 anni, anche perché Fiat non chiude né licenzia, mette in cassa. Altri dieci anni e l’età media sarà di 63. Così si arriverà a un epilogo naturale della fabbrica. E intanto i ragazzi o se ne vanno via o sono costretti a lavorare in condizioni di sfruttamento, nella logistica. Questo non è il futuro che dobbiamo pensare per noi e per le nuove generazioni”.