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Eccoli, impassibili, a pretendere che la produzione non si fermi, come quei soldati giapponesi che continuarono a presidiare le isole del Pacifico, anni dopo la fine della seconda guerra mondiale. Sono uno zoccolo durissimo – e numerosissimo – di imprenditori veneti le cui attività non rientrano tra quelle definite essenziali dal Governo. Sono 15 mila, ma il numero è in continuo aggiornamento. E sono gli alfieri di una realtà distopica, per i quali lo spettacolo deve andare avanti, crollasse il mondo. E mentre il mondo, di fatto, crolla, la loro risposta è una bella domanda al Prefetto per continuare a tenere aperti i cancelli della fabbrica, in deroga alle disposizioni del decreto. E in deroga, senz’altro, al buon senso, una qualità, questa sì, adesso, davvero essenziale.
“È una presa di posizione politica”, ci dice Loris Scarpa, segretario della Fiom di Padova. Non facciamo fatica a credergli. La Confindustria del territorio, a guardarla attraverso le dichiarazioni dei suoi principali esponenti, è la Vandea degli imprenditori. “Il sindacato si appropria delle chiavi delle nostre fabbriche!”, twitta indignato il presidente regionale, Enrico Carraro. Mentre Andrea Ferrazzi, dalla sede di Belluno, gli fa eco sullo stesso social media: “I sindacalisti della Cgil e della Fiom sono virologi, medici, scienziati, economisti”, accusandoli di “inadeguatezza sconcertante” e di “giocare a fare i barricaderi”.
Fuori tempo e fuori luogo, mentre nel resto del mondo si tengono in equilibrio, con ogni sforzo, tavoli di confronto per trovare una linea comune che eviti il precipitare degli eventi, qui il modello resta quello del paron e il Covid solo un altro laccio che limita la libertà di fare profitti. Citiamo di nuovo Loris Scarpa: “Sembra quasi che alle imprese manchi una visione di insieme. Che non accettino lo sforzo collettivo di farsi carico di questa situazione. Invece di confrontarsi con il sindacato, cercano i cavilli per aggirare le norme e tenere aperte le loro aziende”. Ancora più chiaro Antonio Silvestri, segretario della Fiom Veneto: “Le imprese del territorio hanno letto le misure restrittive come una sorta di esproprio architettato da sindacato e governo, non come una decisione per tutelare la salute pubblica”.
Va dritto al punto Christian Ferrari, leader della Cgil regionale: “Qui non si è ancora capito che anticipare in maniera avventata la ripresa delle attività farebbe ripartire il contagio e non il pil. Una realtà solare, eppure difficile da far comprendere. Alla fine, l’unico risultato sarebbe quello di rinviare, ulteriormente, il momento della ripartenza economica”. Ma c’è di più. E la dice lunga sulla strategia miope portata avanti sulla sponda datoriale. Considerando il fatto che le aziende venete sono principalmente contoterziste e che quasi nessuna lavora per il mercato interno, “una ripresa adesso non riavvierebbe comunque il ciclo economico e commerciale che è completamente congelato perché, come è noto, c’è, di fatto, un blocco totale, a livello nazionale e internazionale. È il virus a deprimere l’economia, non i provvedimenti di salute pubblica”, sintetizza Ferrari. “Per cui il primo passo, anche a livello economico, è quello di superare con efficacia questa fase acuta dell’epidemia”.
Il sindacato, tuttavia, predica nel deserto, considerando che anche il governatore Luca Zaia “tiferebbe”, così si è espresso, per riaprire tutto subito dopo Pasqua. “15 mila deroghe sono veramente troppe”, è il commento di Michele Corso, segretario della Filctem Cgil regionale. “Deroghe che spesso riguardano filiere che dovrebbero restare chiuse. Anche perché in Veneto la pandemia sta colpendo duramente. La sanità e le case di riposo sono in una situazione difficilissima”. Ci fai un esempio di chi ci sta marciando? “Nel bellunese c’è un pezzo dell’occhialeria che potrebbe smettere di produrre. Nel codice Ateco sono previsti occhiali da vista e mascherine, ma è un codice molto ampio, dove si sono infilati anche quelli che fanno occhiali da sole e occhiali di lusso. Ci sono tante aziende che sfruttano questa situazione”. Ecco il modo in cui si fa breccia tra le norme. I controlli, più o meno, raggiungono 270 aziende al giorno, ha detto al Corriere Veneto l’assessore al Lavoro Elena Donazzan. Fate voi i conti di quanto ci vorrebbe per scandagliare le 15 mila deroghe richieste. Solo nel padovano sono 3.800, ci dice Loris Scarpa. “Il prefetto cosa risponde? Tutti gli enti possibili li ha destinati ai controlli. Ma l’unico effetto, per ora, è che chi vuole forzare il sistema ce la fa sempre”.
E allora, mentre osserviamo attoniti le fotografie spettrali di Piazza San Marco a Venezia deserta per il lockdown, a poche decine di chilometri le strade provinciali dell’operoso Veneto, disseminate di stabilimenti, capannoni e fabbriche, registrano il transito quotidiano di decine di migliaia di lavoratori per cui tutto è rimasto com’era. “Il tema è che qui praticamente tutti gli imprenditori hanno chiesto di poter continuare le attività, pur non avendo né i requisiti per produrre, né quelli di sicurezza”, ci spiega Antonio Silvestri. “Dei 300 mila metalmeccanici in regione, il 10 percento risultano essenziali e, in questa settimana, altri 20 o 25 mila potrebbero tornare a lavoro. E parliamo solo delle tute blu”. Ognuno di loro ha famiglia, deve fare la spesa, in molti prendono i mezzi pubblici.
Eccola, la catena di contagio. Che rischia di rendere vani gli sforzi sovrumani che stanno compiendo medici e infermieri negli ospedali, nel tentativo di curare e proteggere la popolazione. Spesso, denuncia Christian Ferrari, ancora in penuria di dispositivi di protezione quali mascherine e guanti. Ma se non ce l’hanno loro, come fanno ad averle gli operai? “Il tema è questo”, concorda il segretario regionale della Cgil. “Purtroppo, spesso, la sicurezza nelle fabbriche non viene garantita, al di là delle dichiarazioni degli imprenditori. Per questo ci battiamo perché lavorino solo i dipendenti delle filiere essenziali. Non è solo una questione di tutela degli addetti, è un contributo decisivo allo sforzo collettivo di contenimento del contagio. Ridurre la mobilità e gli spostamenti delle persone ed evitare tutto ciò che può esporre a rischi significa contribuire ad accorciare il circuito del virus. Un concetto che le nostre controparti proprio non vogliono capire”.
“È chiaro che siamo tutti preoccupati dalle drammatiche conseguenze economiche dovute alla sospensione”, ci spiega Antonio Silvestri. “Questa crisi avrà un impatto ancor più violento di quella del 2008. Tuttavia, solo le autorità sanitarie potranno decidere con cognizione di causa quando sarà il momento in cui poter riaprire tutto”. Di fronte all’atteggiamento delle imprese cosa avete fatto e cosa potete fare? “Abbiamo fatto accordi dove era possibile tutelare gli addetti. E scioperi dove, secondo noi, non c’erano le condizioni di sicurezza. Anche nelle fabbriche delle filiere essenziali. Perché i lavoratori non devono rischiare. Secondo noi il pericolo dovremmo prevenirlo. Per le aziende, invece, dovremmo conviverci. A sentire gli imprenditori è come se dicessero: c’è il rischio di prendere il virus, ma è un rischio accettabile”.
Non di certo per gli operai, che hanno paura. Come ci ha detto ognuno dei sindacalisti con cui abbiamo parlato. “Gli imprenditori – ci racconta Loris Scarpa – cercano di aggirare le norme, quando la realtà è che tanti lavoratori hanno paura di andare in fabbrica. Molti si sono messi in ferie, molti in malattia, tutto per evitare di recarsi al lavoro ed esporsi al rischio contagio. Una situazione intollerabile. Sono pochissimi gli stabilimenti dove possiamo garantire il livello di sicurezza auspicato dal Governo. Ci vuole una discussione seria e approfondita. Per quanto ci riguarda, noi, come Fiom di Padova, siamo dalla parte di quelli che non si sentono sicuri”. “La situazione è complicata”, conferma Michele Corso. “I lavoratori hanno molta paura. Noi cerchiamo di monitorare gli accordi, ma non è affatto facile”. E allora che fare? “Tutto ciò che non è sicuro e non è essenziale va fermato”, dichiara Christian Ferrari. “Se non ci pensano le istituzioni, come abbiamo già fatto, ci attiviamo con le forme di mobilitazione e di lotta e con lo sciopero”.
Eccolo, il paradosso Veneto di queste ultime sei settimane. Qui, nel padovano, divampò uno dei primissimi focolai, in quel di Vo’ Euganeo. E sempre qui, il 21 febbraio, ci fu la prima vittima italiana accertata di coronavirus, Adriano Trevisan, 78 anni, deceduto all’ospedale di Schiavonia. Il lockdown e il terrore del contagio ha cancellato i leggendari spritz e persino i turisti dalle calli veneziane. Ma mentre tutti, in questo silenzio triste, seguono, con il fiato sospeso, la conta dei decessi e dei nuovi positivi, qualcuno continua a contare solo gli sghei.