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La transizione industriale, si dice. Ma qui il rischio è la “cessazione” industriale. Il comparto dell’automotive in Italia è arrivato a un drammatico livello di criticità. Il disimpegno di Stellantis, le difficoltà della Germania, il taglio al fondo del settore deciso dal governo, tutto sembra concorrere alla sua scomparsa. Un settore strategico per il Paese, che ancora oggi rappresenta l’11% del Pil nazionale.
La situazione italiana s’inserisce in un contesto continentale complicato. Le notizie provenienti dalla Volkswagen, intenzionata a chiudere tre fabbriche in Germania (con migliaia di licenziamenti) e a ridurre la capacità produttiva degli altri sette impianti tedeschi, sono molto allarmanti. Basti dire che Lamborghini e Ducati sono direttamente legate ad Audi e quindi al gruppo Volkswagen, e che gran parte della filiera della componentistica (soprattutto quella del Nord Italia) lavora per l’industria automobilistica germanica.
A questo lento declino lavoratori e sindacati stanno cercando di opporsi con ogni mezzo. Venerdì 18 ottobre Fiom Cgil, Fim Cisl e Uil Uil hanno organizzato uno sciopero generale, con manifestazione nazionale a Roma. Una settimana dopo, venerdì 25 ottobre, si sono fermati i lavoratori della filiera non metalmeccanica dell’automotive (il comparto della componentistica, in sostanza), per uno sciopero organizzato da Filctem Cgil, Femca Cisl e Uiltec Uil.
Le responsabilità di Stellantis
“Stiamo vivendo il fallimento del suo piano industriale relativo agli stabilimenti in Italia, che in verità piano industriale non è”, ha detto il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma intervenendo mercoledì 30 ottobre in Parlamento, nel corso di un’audizione informale da parte delle Commissioni Attività produttive di Camera e Senato in merito alla situazione dell’ex Fiat.
“È una semplice enunciazione di principi e di intenti non corroborati da impegni precisi e vincolanti”, prosegue il leader sindacale: “Non ci sono garanzie sulle produzioni future. E anche laddove ci sono annunci, l’avvio delle nuove produzioni è continuamente spostato in avanti, come ad esempio a Melfi. Non sono previsti modelli mass market e in non tutti gli stabilimenti sono previste future produzioni di modelli elettrici, come ad esempio a Pomigliano”.
Il vero problema di Stellantis in Italia, dunque, non è la transizione. “In Italia non si producono auto elettriche, a eccezione della 500 a Mirafiori, ma solo modelli ormai obsoleti esclusivamente endotermici”, riprende De Palma: “Le attuali produzioni in Italia sono ancora modelli decisi e allocati da Fca e non da Stellantis. L’amministratore delegato Tavares sostiene che le scelte industriali sono determinate dal mercato, un concetto utilizzato soprattutto per giustificare lo stop al progetto gigafactory di Termoli. Dovrebbe invece essere il contrario: le scelte industriali dovrebbero servire a ‘governare’ il mercato, soprattutto a delinearne il futuro”.
Quali sono le conseguenze di quest’assenza? Anzitutto l’uso massiccio degli ammortizzatori sociali, come sta avvenendo in tutti gli stabilimenti Stellantis in Italia. E c’è di più: “Da almeno dieci anni è in atto una politica di ristrutturazione strisciante attraverso le uscite volontarie incentivate dei lavoratori: 3.800 solo nel 2024, oltre 12 mila dal 2015. E, a domanda specifica su quando terminerà questo processo, non vi è stata alcuna risposta da parte dell’azienda”.
Il tavolo automotive
Il tavolo, avviato presso il ministero delle Imprese da quasi un anno e mezzo, ha l’obiettivo di trovare le condizioni per riportare la produzione in Italia al livello di 1 milione di veicoli all’anno. “Un obiettivo importante ma insufficiente a dare garanzie di saturazione a tutti gli stabilimenti”, spiega il segretario generale Fiom: “A fronte di una capacità installata di oltre 1,5 milioni di veicoli all’anno, riteniamo che l’obiettivo avrebbe dovuto essere quello di 1 milione di auto e 300 mila veicoli commerciali leggeri”.
Ma anche l’obiettivo di 1 milione di veicoli risulta oggi fuori portata. “La produzione nel 2024 – illustra il leader Fiom – difficilmente supererà le 400 mila unità, con un calo di oltre il 30 per cento rispetto l’analogo periodo del 2023 e conseguente a una dinamica che vede la produzione nazionale passare da 1,4 milioni nel 2000 ai livelli attuali. In questo contesto di progressivo arretramento, al tavolo automotive Stellantis non ha dato alcun tipo di garanzia sia produttiva sia occupazionale”.
Stellantis ha invece dichiarato di condividere l’obiettivo del tavolo solo a condizione che fossero garantiti dal governo incentivi agli acquisti con un piano pluriennale, la riduzione dei costi energetici e la protezione del mercato interno dall’ingresso di altri costruttori. “Tutto questo – chiosa De Palma – non può essere definito un piano industriale: Stellantis deve dare risposte al governo, ai sindacati, alle lavoratrici e ai lavoratori, al Paese”.
La situazione dell’ex Fiat ricade anche sulle numerose imprese dell’indotto e della componentistica, dove si registra un’ondata di chiusure e cassa integrazione. “Sono aziende – precisa il segretario generale – insediate nei territori degli stabilimenti Stellantis e con un rapporto di monocommitenza, o comunque con una percentuale del proprio fatturato molto significativo, verso la multinazionale. E sono attraversate da processi di ammortizzatori sociali che, in non pochi casi, sono ormai prossimi al termine di massimo utilizzo”.
L’assenza del governo
A questa situazione si aggiungono le scelte sbagliate, o anche le non scelte, dell’esecutivo. “Al progressivo disimpegno di Stellantis si sommano l’assenza di politiche industriali e la cancellazione dei fondi per la transizione da parte del governo”, argomenta il segretario generale: “Nel corso del 2024 ha stanziato 950 milioni di euro come incentivo all’acquisto di auto non inquinanti. Scelta sbagliata, perché non condizionata a garanzie produttive e occupazionali in capo a Stellantis. Tanto che, appunto, le produzioni quest’anno stanno precipitando di oltre il 30 per cento rispetto all’anno scorso”.
L’automotive italiana avrebbe invece bisogno di un governo che anche in Europa spinga sulla transizione, ma con una dotazione straordinaria di risorse per rendere il passaggio socialmente sostenibile. “Le risorse pubbliche per la transizione verso la sostenibilità ambientale nell’auto – riprende il leader sindacale – vanno indirizzate alla salvaguardia delle prospettive dei lavoratori e dell’innovazione tecnologica, non alla salvaguardia dell’industria dell’auto così come la conosciamo oggi”.
“Sbagliata e incomprensibile” è anche la scelta del governo (nell’ambito della legge di stabilità) di ridurre dell’80 per cento i fondi per la transizione verde, la ricerca, gli investimenti del settore automotive e per il riconoscimento di incentivi all’acquisto di veicoli non inquinanti. “I fondi residuati – sottolinea De Palma – sono assolutamente insufficienti a garantire qualsiasi elemento di sostegno ai cambiamenti tecnologici, di formazione e riqualificazione degli addetti, di occupazione dei lavoratori impegnati nell’industria dell’auto”.
L’ultima questione riguarda la volontà del governo di attrarre produttori cinesi nel nostro Paese. “In Italia si producono oggi meno di 400 mila auto all’anno e se ne immatricolano poco meno di 1,5 milioni, quindi spazi per altri produttori ci sono”, conclude De Palma: “Vanno però posti vincoli e condizionalità da parte del governo: giusta applicazione dei contratti nazionali, rispetto dei diritti dei lavoratori, valorizzazione della filiera della componentistica. Questo può essere ottenuto anche attraverso la presenza negli asset societari di imprese italiane, ma anche direttamente dello Stato”.