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Sono 75,6 milioni le lavoratrici e i lavoratori domestici nel mondo. Hanno sofferto le conseguenze della crisi sanitaria più di altri, così come le famiglie che vi si affidano per avere assistenza e cura. E le loro condizioni di lavoro, la cui qualità era già piuttosto scarsa, sono peggiorate. Nella fase più acuta e critica della pandemia in tanti hanno perso il lavoro: tra il 5 e il 20 per cento nella maggior parte dei Paesi europei, in Canada e in Sudafrica, tra il 25 e il 50 per cento nelle Americhe.
La fotografia di questo settore, che rappresenta il 2,3 per cento dell’occupazione totale, ce la fornisce il nuovo rapporto dell’Ilo, Organizzazione internazionale del lavoro, redatto a dieci anni dall’adozione della storica Convenzione n. 189 del 2011, grazie alla quale in molti Paesi colf e badanti hanno conquistato una tutela giuridica: oggi solo l’8,3 per cento è completamente escluso da garanzie e coperture, soprattutto negli Stati arabi, in Asia e nel Pacifico, il 49 per cento ha diritto a un riposo settimanale, il 34,8 alla limitazione del normale orario, il 43 ha pari diritti per quanto riguarda le ferie retribuite. Progressi sono stati compiuti sul fronte di salario minimo, sicurezza sociale, congedi maternità.
Nonostante questo, però, per molti il lavoro dignitoso è ancora un miraggio, a causa dei vuoti normativi e della mancata attuazione delle leggi. Basti pensare che otto lavoratori su dieci, ovvero 61,4 milioni, sono occupati nell’economia informale, cioè sono in nero, una quota che è doppia rispetto a quella degli altri dipendenti. Per loro non ci sono diritti, niente coperture assicurative o garanzie e un salario mensile che in media è il 37,6 per cento di quello di chi ha un contratto.
“Pur avendo in Italia un contratto collettivo nazionale, che regola tanti degli aspetti previsti dalla Convenzione Ilo, dall’orario al diritto alle ferie, il 60 per cento dei circa 1,6 milioni di lavoratori domestici è più o meno irregolare – spiega Manuela Loretone, Filcams Cgil -. Questo è il problema principale. Inoltre alcune prestazioni che sono normali per tutti gli altri lavoratori, come malattia, maternità, e così via, non valgono per quelli domestici, che peraltro non hanno neppure una tutela rispetto ai licenziamenti. Lo abbiamo visto durante la pandemia: non solo a loro non era applicabile il blocco, ma abbiamo dovuto scrivere al governo perché venisse riconosciuta un’indennità”.
In alcuni casi si sono addirittura ritrovati senza lavoro, licenziati e anche senza casa, perché erano conviventi ma non potevano ritornare nei Paesi di provenienza a causa delle restrizioni. E quando hanno proseguito l’attività, non hanno avuto le adeguate protezioni di sicurezza perché la legge non chiariva se a doverle fornire fossero le famiglie.
“Abbiamo cercato di affrontare queste questioni con le associazioni datoriali, ma il problema del nero non consente di intervenire adeguatamente – conclude Loretone -. Con il Pnrr si punterà sull’occupazione femminile, chiediamo misure per contrastare il lavoro nero e favorire l’emersione, riconoscendo per esempio una forma di deducibilità delle spese sostenute dalle famiglie”. La stessa strada è indicata anche dall’Ilo nel rapporto: la formalizzazione è un mezzo e una condizione necessaria per promuovere condizioni di vita e di lavoro dignitose. I governi devono attivarsi per ridurre i costi finanziari e di transazione del lavoro formale attraverso incentivi fiscali, come sgravi o sussidi, e per semplificare le procedure di registrazione e contribuzione alla sicurezza sociale, anche attraverso le tecnologie digitali.