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“Le nostre proposte, rivolte alle istituzioni nazionali ed europee e alle imprese, partono da una valutazione di fondo: tutti i cambiamenti devono essere affrontati con i lavoratori e non contro”. Così il segretario generale Fiom Cgil Michele De Palma, presentando oggi (martedì 29 aprile) a Roma lo studio “Il lavoro metalmeccanico tra dazi e tavoli al Mimit”, cui ha partecipato anche Matteo Gaddi (Ufficio studi Fiom Cgil nazionale).
La ricerca si è concentrata sullo stato dell’industria metalmeccanica nel primo trimestre 2025, sull’andamento settoriale dell’import e dell’export che è al centro della discussione sui possibili dazi, sulla situazione dei principali settori (siderurgia, energia, elettrodomestico, automotive) e sulle relative crisi industriali.
Import ed export
Nel 2024 le importazioni dei prodotti metalmeccanici in Italia ammontavano a quasi 229 miliardi di dollari, mentre le esportazioni a 282 miliardi: il saldo è dunque positivo, superiore ai 53 miliardi. Il saldo è negativo con la Cina (-20 miliardi), ma positivo con Stati Uniti (+23), Unione Europea (+8) e resto del mondo (+42).
Gli Stati Uniti assorbono una quota significativa di esportazioni metalmeccaniche italiane (10,5%), anche se l’area di principale esportazione rimane di gran lunga l’Unione Europea (57,1%). All’interno della Ue un ruolo decisivo lo gioca la Germania che, a propria volta, è un forte Paese esportatore verso gli Usa: questo potrebbe determinare un ulteriore effetto (a causa dei dazi americani), seppur indiretto, sulle esportazioni italiane dirette verso gli Stati Uniti.
L’Unione Europea è il nostro principale partner commerciale. E la Germania in particolare, che rappresenta il 21,1% delle importazioni e il 13% delle esportazioni. Gli Stati Uniti rivestono un ruolo importante riguardo l’export (10,5%) e secondario riguardo l’import (2,7%). Inversamente proporzionale è il ruolo della Cina: importante per le importazioni (11,8%) e secondario per le esportazioni (2,4%).
Guardando nello specifico alle esportazioni dei prodotti metalmeccanici italiani verso le diverse aree del mondo, segnaliamo che gli Stati Uniti importano il 21,2% del valore delle navi esportate dall’Italia, il 20,5% di aerei e sue parti, il 12,6% di macchinari e impianti, l’11,1% di veicoli e componentistica.
I dazi Usa
La ricerca Fiom prende in esame i dazi in vigore (o comunque imminenti) sui prodotti metalmeccanici, attualmente tutti al 25%. I dazi sull’alluminio (dal 12 marzo 2025), oltre al settore specifico, si applicano a ulteriori 55 prodotti, per un valore complessivo di 3,417 miliardi di dollari di esportazioni italiane.
I dazi sull’acciaio (dal 12 marzo 2025), oltre al settore specifico, si applicano a ulteriori dieci prodotti, per un valore complessivo di 2,258 miliardi di dollari di esportazioni. I dazi sui veicoli (dal 3 aprile 2025) si applicano a un valore complessivo di 3,653 miliardi di dollari di esportazioni. I dazi sulla componentistica veicoli (che entreranno in vigore dal 3 maggio prossimo) riguardano 90 prodotti per un valore complessivo di 2,752 miliardi di dollari di esportazioni italiane.
Le proposte della Fiom
“Il primo dato evidente è che una ‘guerra dei dazi’ rischia di essere pagata dalle lavoratrici e dai lavoratori”, spiega De Palma: “Questo perché le eventuali rilocalizzazioni e delocalizzazioni della capacità produttiva - anche se siamo consapevoli del fatto che non si potranno realizzare in breve tempo - possono comunque provocare determinate scelte di investimenti, distogliendo così gli investimenti dal perimetro europeo e italiano”.
Per la Fiom, dunque, è fondamentale che Italia e Ue abbiano la consapevolezza di dover intervenire. “Abbiamo la necessità di diversificare, di evitare di essere in una condizione che potremmo definire di ‘monocommittenza’ di mercato o di materie prime”, continua: “Abbiamo anche la necessità di diversificare le relazioni commerciali, facendo esattamente il contrario dei dazi, ossia allargando l’interscambio internazionale rispetto alle necessità industriali e commerciali”.
Contrastare la ‘guerra dei dazi’ e ridurre la dipendenza dell'Unione Europea sono dunque i primi due aspetti su cui la Fiom invita la politica italiana ed europea ad agire. Ma ce n’è un terzo: “Dobbiamo superare il modello economico basato sulle esportazioni, rilanciando la domanda interna tramite l’aumento dei salari. Negli ultimi anni abbiamo avuto un sistema industriale che puntava ad avere alte marginalità all'interno dell'Unione Europea, scaricando poi ai margini dell'Europa le produzioni a più basso valore aggiunto. Questo ha disintegrato la filiera produttiva, provocando anche la dipendenza di alcune nostre produzioni da altri Paesi”.
La Fiom ritiene fondamentale anche l’introduzione di provvedimenti che impediscano le delocalizzazioni e che sostengano i processi di reshoring per il completamento delle filiere industriali. “Dobbiamo ricostruire - riprende il leader sindacale - una filiera corta dell'industria, che vada dalla ricerca e sviluppo alla progettazione e alla produzione, non limitandoci all’assemblaggio finale. Bisogna, insomma, ricostruire l’intera filiera produttiva, il valore complessivo della nostra industria”.
Per De Palma è anche essenziale “contrastare le strategie di dumping sociale e ambientale che avvengono lungo i confini dell'Unione Europea, cioè a Sud del Mediterraneo e a Est”. Per ultimo, è necessario avere “una politica di sostegno alla crescita, da realizzare attraverso un’armonizzazione contrattuale e salariale in Europa, avendo così un mercato continentale che possa rilanciare anche la domanda all'interno dell'Unione Europea”.
I numeri della crisi
Partiamo dalla cassa integrazione, in crescita continua e costante: nel 2022 le ore mensili sono state quasi 16 milioni, nel 2023 hanno superato i 16 milioni, mentre nel 2024 c’è stato un forte balzo in avanti, arrivando a toccare quota 21 milioni 698 mila. Dal 2021 al 2024, dunque, la cassa integrazione è aumentata del 36,3%.
Preoccupante è anche il numero delle crisi aziendali, ossia dei tavoli aperti al ministero delle Imprese: negli ultimi cinque anni, avendo come riferimento circa 40 aziende metalmeccaniche, sono stati persi 13.571 posti di lavoro. Il numero di addetti attualmente coinvolti in situazioni di crisi (cioè dichiarati esuberi e/o in ammortizzatori sociali) è pari a 19.364: il 49,2% degli addetti attualmente in forza a tali aziende.
Riguardo i singoli settori, si evidenziano le enormi difficoltà della siderurgia: i posti di lavoro persi sono stati 6.308, mentre quelli a rischio sono attualmente 6.457 (su oltre 13 mila addetti complessivi). A soffrire è anche il comparto automotive e mezzi di trasporto in genere: 2.769 i posti di lavoro persi, 7.582 quelli a rischio (su poco più di 12 mila addetti). Altrettanto preoccupante è il quadro del comparto telecomunicazioni ed elettronica: 2.770 i posti persi, 2.354 quelli a rischio (su 3.466 complessivi).
Entrando più in dettaglio, nel comparto dell’automotive dall’origine delle crisi a oggi sono stati persi 2.127 posti di lavoro, mentre il totale dei lavoratori coinvolti in situazioni di crisi (cioè dichiarati esuberi e/o in ammortizzatori sociali) sono 5.845, pari al 59,1% degli addetti attuali. Tra le aziende ora in maggiori difficoltà, si segnalano Dana, Tecnologie Diesel (meglio nota come la Bosch di Bari), Metasystem, ex Blutec, Denso Manufacturing Italia e Lear Corporation Italia.
Nella siderurgia sono stati persi 6.308 posti di lavoro, i lavoratori coinvolti in situazioni di crisi sono 6.457, pari al 47% degli addetti. I casi più eclatanti sono: Acciaierie d’Italia (ex Ilva), dove dal 2021 sono stati persi 3.140 posti di lavoro, mentre quelli a rischio sono 3 mila (su 11.650 complessivi); Jsw Steel Italy Piombino (ex Lucchini), dove dal 2008 sono stati persi 1.340 posti, mentre a rischio è la totalità degli addetti, ossia 1.499; Berco, dove dal 2024 sono stati persi 60 posti, mentre a rischio è la totalità degli addetti, ossia 1.396.
Nel settore degli elettrodomestici sono stati persi 1.232 posti di lavoro, i lavoratori coinvolti in situazioni di crisi sono 2.138, pari al 24% degli addetti attuali. I casi principali sono Beko Europe (1.224 posti a rischio), Electrolux Italia (500) e Italia Green Factory (ex Whirlpool Napoli, 293 posti a rischio). Infine, gli appalti metalmeccanici nelle centrali termoelettriche e petrolchimici: gli addetti coinvolti nei piani di riconversione/dismissione sono 7.836, di cui 5 mila solo nell’impianto Eni-Versalis di Priolo.
De Palma, Fiom: “Strumenti nuovi per governare la transizione”
“Una parte consistente dei tavoli aperti al ministero delle Imprese sono crisi ormai decennali”, illustra De Palma: “Non siamo in presenza di difficoltà che sono frutto del processo di transizione, bensì di situazioni derivanti da una crisi strutturale del nostro sistema industriale, che dovrebbero essere affrontate con strumenti adeguati”.
La Fiom ritiene essenziale dare vita a un piano di investimenti pianificato e guidato dal pubblico per realizzare una struttura industriale completa: “Il fondo Transizione 5.0, ad esempio, ha ancora a disposizione risorse per cinque miliardi e mezzo di euro. Andrebbero utilizzate per progetti d’investimento sui settori strategici, facendo scelte precise e non interventi a pioggia, quindi interventi che trainino davvero lo sviluppo industriale del Paese”.
Queste risorse, però, vanno legate a forti condizionalità sociali, come i livelli occupazionali e la qualità dell’occupazione: “L’azienda che le riceve deve impegnarsi a garantire che non licenzierà i lavoratori. Il nostro presupposto è che la transizione e la crisi in atto si affrontano con le lavoratrici e i lavoratori, non contro di loro”.
Altro punto dirimente è l’istituzione di un “fondo pubblico di investimento per l’ingresso nell’equity societario”, con funzioni di orientamento degli investimenti, delle loro implementazione e coordinamento: “Dobbiamo entrare nel sistema dell’impresa, intervenire sulle politiche industriali che vengono realizzate, assumere pezzi di gestione dell'azienda rispetto agli obiettivi di carattere pubblico”.
Altrettanto importante è completare e rafforzare le filiere industriali strategiche, arrivando alla costituzione di poli nazionali settoriali integrati di produzione, la cui realizzazione deve avvenire tramite il ruolo di soggetti pubblici (come Cassa depositi e prestiti e Invitalia) e le principali partecipate pubbliche.
Last but not least, occorre istituire ammortizzatori sociali finalizzati a tutelare l’occupazione nel periodo necessario a realizzare tali investimenti. In altre parole: serve uno strumento nuovo e specifico per la transizione. “I piani industriali – conclude De Palma – vanno uniti a un piano pluriennale di garanzia occupazionale che sostenga la riduzione dell'orario di lavoro anche attraverso gli strumenti della formazione, e che punti a rigenerare la forza-lavoro, facendo quindi entrare in azienda personale giovane, utile rispetto al grado di innovazione di cui abbiamo bisogno”.