PHOTO
Scuola, sanità, lavoro ed economia: emergenze che non si risolvono con l’autonomia differenziata voluta da Calderoli. Il mito di servizi efficienti è, appunto, un mito. Lo afferma la segretaria generale della Cgil Veneto Tiziana Basso, riflettendo su come fermare un progetto che non solo minerebbe l’unitarietà del Paese, ma sarebbe controproducente anche per i veneti.
Più volte hai affermato che l’autonomia differenziata è pericolosa. Perché? E per chi?
Per comprenderne la pericolosità, vale la pena tornare a quando tutto è nato, perché in questo caso anche le date sono importanti. Il referendum consultivo in Veneto si è tenuto il 22 ottobre 2017. Il presidente Zaia, senza infingimenti, spiegò allora che la scelta era caduta su quella giornata perché era la risposta – 151 anni dopo – al plebiscito del 22 ottobre 1866 con cui il Veneto si era unito all’Italia. È questo lo spirito con cui è stata inaugurata l’iniziativa, che aveva un evidente intento separatista. Con il passare del tempo, soprattutto con le difficoltà incontrate nel far approvare il progetto, e anche grazie alla nostra opposizione, alcuni toni si sono stemperati.
Un caso emblematico è quello della scuola...
Esattamente, e sulla cui regionalizzazione la nostra contrarietà è "senza se e senza ma". Basterebbe conoscere il livello della discussione locale sul punto, tra l’insegnamento del dialetto e posti da insegnante da riservare ai veneti, per capire a cosa si andrebbe incontro nella malaugurata ipotesi si cedesse sul punto di una scuola pubblica di esclusiva competenza nazionale.
È un progetto di riforma che possiamo definire "pericoloso"?
Certamente, e lo è ancor più per chi rappresentiamo: il mondo del lavoro, che già subisce una selvaggia competizione tra persone, subirebbe anche quella tra territori. Ma mette a rischio la stessa tenuta unitaria del Paese. Una vera e propria deriva, che contraddice i valori fondamentali di solidarietà e universalità dei diritti della nostra Costituzione. Con l’autonomia differenziata sono in gioco gli stessi ideali per i quali la nostra organizzazione è nata oltre un secolo fa.
Il Veneto è stata la Regione capofila a spingere per l’autonomia, oggi propugna la devoluzione di tutte e 23 le competenze possibili. Ma sarebbe in grado di gestirle davvero?
Si tratterebbe di un "trasloco istituzionale" infinito e, comunque, il Veneto non sarebbe in grado di gestire un passaggio così massiccio di competenze, non lo è neppure per le materie su cui già oggi potrebbe esercitare un ruolo. C’è un mito da sfatare, ossia che le istituzioni regionali, in particolare quella veneta, siano virtuose per definizione, mentre le inefficienze caratterizzerebbero esclusivamente le istituzioni nazionali.
Non è così?
No, è poco più di una leggenda metropolitana. Basta elencare i problemi che non riusciamo ad affrontare in maniera adeguata, o che non stiamo affrontando affatto, che vanno dall’inquinamento dell’aria al consumo di suolo, dalla salute e sicurezza nei luoghi di lavoro agli scarsi investimenti in innovazione e ricerca, o alla presenza della criminalità organizzata nella nostra regione. E potrei proseguire.
Se il progetto Calderoli passasse, cosa accadrebbe in Veneto dal punto di vista dell’economia e del lavoro. Spicchereste il volo proiettati in Europa?
Su questo credo ci sia, da parte dei sostenitori dell’autonomia differenziata, una grande illusione. L’illusione che se la ricca "locomotiva d’Italia" - che però sta rallentando - si separasse dalle regioni più in difficoltà, decollerebbero la crescita e il benessere. Basta conoscere il tessuto produttivo veneto per capire che non sarebbe così. Pur avendo presente il volume complessivo delle esportazioni della nostra Regione, appena un terzo, se non un quarto delle nostre aziende, ha accesso ai mercati esteri. La gran parte delle imprese, dunque, vive di domanda interna nazionale, se ce ne privassimo sarebbe una catastrofe. Se non rilanciamo la domanda interna, a partire proprio dal Meridione, contrastando un’inflazione che sta falcidiando le retribuzioni dei lavoratori, anche le imprese venete e di tutto il Nord Italia pagheranno pesantemente pegno.
Qual è l'atteggiamento degli imprenditori?
Al fondo di questa illusione, c’è anche un atteggiamento rinunciatario della nostra classe imprenditoriale: non scommettere sulla capacità d'innovazione delle aziende, sulla qualità dei prodotti, accontentandosi di svolgere il ruolo di contoterzisti poveri del Centro e del Nord Europa, soprattutto della Germania. Senza peraltro considerare la crisi che la stessa Germania e l’intero continente stanno vivendo a causa dell’instabilità geopolitica determinata dalla guerra in Ucraina e dalla conseguente crisi energetica.
A questa mediocrità delle imprese il sindacato come può rispondere?
È compito nostro contrastare questo sguardo miope sul nostro futuro produttivo, mettendo al centro innanzitutto la qualità del lavoro, senza il quale non potremo vincere la sfida della transizione digitale e nemmeno della conversione ecologica. Una qualità del lavoro che troppo spesso manca, al punto che l’emigrazione dei giovani all’estero, per trovare uno sbocco professionale dignitoso, non è una prerogativa del Sud, ma un dramma anche per il Veneto, che si aggiunge all’inverno demografico in corso da anni. Risultato: la fascia giovanile della nostra popolazione si è ridotta di 250 mila unità negli ultimi vent’anni.
Passiamo alla sanità: quella veneta è davvero il modello di efficienza di cui si racconta? E cosa paventate per il futuro?
Partirei dall’emergenza sanitaria determinata dall’irrompere del Covid nelle nostre vite. Proprio sulla pandemia, contrariamente a quanto si sostiene, il ruolo delle Regioni, e nello specifico del Veneto, non va considerato positivamente, soprattutto nel rapporto con lo Stato. Un conflitto latente, in alcuni casi esplosivo, ha attraversato tutta la fase dell’emergenza. Molte scelte locali, soprattutto durante la seconda ondata del virus, non si sono distinte per aver dato un contributo fattivo al contenimento dei contagi. Al punto che i numeri veneti, nell’autunno 2020, sono stati ben peggiori della media nazionale. C’è poi da stendere un velo pietoso sul tentativo del Veneto di cercare i vaccini per proprio conto sul mercato, addirittura in contrapposizione con l’acquisto condiviso a livello europeo.
La realtà, allora, è un po' diversa...
Sulla sanità andrebbe avviata una riflessione: tra carenze di personale, trattamento economico delle lavoratrici e dei lavoratori, turni massacranti non solo negli ospedali ma anche nelle case di riposo, liste d’attesa, migrazione di sempre più pazienti verso il privato, mi sembra evidente che la regionalizzazione della sanità presenta sempre più ombre, che andrebbero dissipate.
Proprio sui temi della sanità e della salute avete avviato una mobilitazione.
La Cgil Veneto, insieme a Cisl e Uil, e tante altre realtà della società civile, ha aperto una vertenza a livello regionale. Sabato 15 aprile abbiamo partecipato a una grande manifestazione a Vicenza. Se non s'interviene, se non si recuperano risorse - avevamo proposto un’addizionale Irpef regionale per i redditi più alti, ma siamo rimasti inascoltati -, se non s'incrementano gli organici, sempre più cittadini non avranno accesso a servizi essenziali e non avranno nemmeno le risorse per rivolgersi alla sanità privata. Gli verrebbe negato un diritto di cittadinanza fondamentale.
Si dice che i cittadini e le cittadine del Veneto siano in grande maggioranza favorevoli all’autonomia. Ma è davvero così?
Non siamo nel 2017, oggi i veneti hanno ben altri problemi e tutt’altri timori: la precarietà del lavoro, l’inflazione, le bollette, i mutui, e tutto il resto che sappiamo. Ma anche all’epoca il referendum in Veneto superò di poco il 50%. Come Cgil regionale ci siamo battuti in solitudine per contrastarlo, soprattutto rispetto alla politica locale, che ha sostenuto la posizione della giunta regionale sostanzialmente all’unanimità. Ci fosse stato allora un atteggiamento diverso, ci fossero stati più coraggio e più autonomia di pensiero da parte del centrosinistra, oggi forse staremmo raccontando una storia diversa.
Che fare per impedire la realizzazione del disegno del ministro leghista?
Come Veneto, Emilia-Romagna e Lombardia stiamo organizzando un'importante iniziativa per maggio. Abbiamo la necessità di allargare il fronte dell’opposizione sociale all’autonomia differenziata, che non determinerebbe solo un cambiamento radicale dell’architettura costituzionale dello Stato, ma avrebbe conseguenze immediate sulle condizioni materiali delle lavoratrici e dei lavoratori, a partire dalla destrutturazione dei contratti collettivi nazionali. Credo che sul tema ci sia un’ampia convergenza sulle nostre posizioni. E penso che anche sulla necessità di garantire a ogni latitudine l’uniformità dei diritti di cittadinanza e dei servizi sociali possiamo costruire un’ampia maggioranza.
L'autonomia differenziata, tra l'altro, sembra anche entrare in collisione con le grandi sfide che abbiamo di fronte.
La realizzazione del Pnrr, la rivoluzione tecnologica, la lotta al cambiamento climatico, sono tutte sfide enormi. Senza politiche unitarie nazionali, a cominciare da quelle industriali, non solo non potremo vincerle, ma nemmeno provare ad affrontarle. Per avere la meglio in questa battaglia dobbiamo, sostanzialmente, inserirla nell’impegno più ampio a cambiare modello di sviluppo, mettendo tra le nostre priorità la lotta alle diseguaglianze economiche e territoriali, il lavoro stabile e di qualità, un welfare in grado di curare le ferite del nostro tempo.
Autonomia differenziata versus federalismo: possiamo semplificare così?
La nostra contrarietà all’autonomia differenziata, così come è stata concepita, non deriva da una concezione centralista dello Stato. Per essere chiari: noi siamo favorevoli al federalismo, ad avvicinare le decisioni ai cittadini. Contrastiamo il centralismo, non solo quello nazionale, ma anche quello regionale, mentre sosteniamo il ruolo di enti locali, Province, Città metropolitane, che va assolutamente valorizzato. Siamo federalisti, ma nella convinzione che le scelte strategiche e i servizi fondamentali vadano garantiti dallo Stato a tutti i cittadini, a prescindere da dove si nasce e si vive, dalla famiglia cui si appartiene. Il nostro futuro non è nelle piccole patrie, ma nell’Europa unita.