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“In fabbrica siamo 177, in 40 abbiamo ripreso a lavorare dopo una settimana di stop totale per confezionare i camici da donare agli ospedali lombardi. Poi di nuovo tutto fermo fino al 4 maggio. Ora siamo tornate in azienda per recuperare il non prodotto, ma già venduto e confermato. Gli ordini vanno consegnati entro settembre. Noi lavoriamo e ci sentiamo molto fortunate”. È il racconto di Alessandra Castellucci, addetta al reparto taglio dello stabilimento di Armani a Matelica (Macerata). Ma alla fortuna si somma la preoccupazione per quel che verrà. Le sfilate si potranno fare? La prossima collezione ci sarà? E, soprattutto, ci saranno ordini sufficienti a far lavorare tutte? Tutte, sì, perché come nelle altre aziende della filiera della moda, la manodopera è donna. E questo settore, che non se la passava benissimo già prima della pandemia, rischia di uscire assai ridimensionato dalla crisi economica frutto di quella sanitaria. Un guaio per il Pil del Paese e per l’occupazione femminile.
Sono circa 680 mila gli addetti diretti del settore moda italiano, impiegati nelle 60 mila imprese che ne costituiscono l’arcipelago e che ogni anno producono un fatturato di 97 miliardi di euro. Altri 300 mila sono impiegati nella filiera accessori. Insomma, parliamo di circa un milione di lavoratori, anzi lavoratrici. È importante ricordare, inoltre, che in Italia si realizza circa il 40% di tutta la produzione europea della moda, e oltre il 95% del prodotto di alta gamma a livello mondiale. Quando si dice "made in Italy". Ma è un settore fatto di grandi marchi e di piccoli e piccolissimi produttori, di grosse aziende e di micro imprese con meno di dieci addetti. Un settore che cominciava a sentire gli scricchiolii della crisi anche prima che il coronavirus si affacciasse in Europa. E le preoccupazioni si sono fatte rilevanti, visto non solo il blocco della produzione durante il lockdown, ma anche per le mancate vendite: i negozi sono stati chiusi per oltre due mesi. Se si pensa che il settore produce ben più della metà del fatturato grazie all’export, che oggi è praticamente fermo, le preoccupazioni aumentano.
È proprio di queste ore una parziale buona notizia: al ministero degli Esteri è stato siglato il patto per l’export, un programma di lavoro condiviso tra governo e imprese per rilanciare le esportazioni dopo l’emergenza Covid-19, che vale 1,4 miliardi di euro. Sei le aree prioritarie d’intervento: re-branding nazionale, formazione e informazione, e-commerce, sistema fieristico, promozione integrata e finanza agevolata. Ma sarà sufficiente a far ripartire un settore che occupa il 13% degli addetti dell’intero comparto manufatturiero? Il mercato interno è praticamente fermo, l’Istat prevede per il 2020 una contrazione dei consumi delle famiglie dell’8,7%. È probabile che abiti, calzature e accessori non siano tra le priorità di chi è in cassa integrazione o ha già perso il lavoro.
Tra chi è in cassa integrazione, o vi è stata fino a pochi giorni fa, ci sono proprio le lavoratrici del settore. Natascia Vitiello lavora alla Bianchi Nardi di Firenze, producono articoli di pelletteria, tra impiegati e operai sono circa un centinaio. Il 20 marzo la fabbrica ha chiuso per riaprire parzialmente il 27 aprile, oggi lavora il 60% dei dipendenti, gli altri sono ancora in cassa a rotazione. Cassa, per fortuna, anticipata dall’azienda. Spiega Natascia: “Il settore è in crisi e il rischio di perdere posti di lavoro, se non vengono estesi gli ammortizzatori, è forte. Per il momento il futuro proprio non lo vedo”.
Se dalle cinture e i guanti passiamo alle scarpe, le cose non vanno certo meglio. Iva Capodarco vive nelle Marche, regione famosa per le produzioni calzaturiere. Lavora alla Toolk, in provincia di Fermo, dal 2015: allora erano oltre 100, a febbraio di quest’anno erano 80 e da un anno e mezzo in contratto di solidarietà, ma l’azienda ha contemporaneamente delocalizzato una parte della produzione in Est Europa. “Il Covid-19 è arrivato come una mazzata su una situazione già difficile, da inizio marzo siamo andati tutti a casa in cassa integrazione senza aver ricevuto il salario di febbraio, solo la settimana scorsa l’Inps ci ha versato la mensilità di marzo”.
I racconti delle lavoratrici confermano quanto gli uffici studi spiegano da tempo: il settore già da un quindicennio sta facendo i conti con una forte contrazione occupazionale e dei volumi produttivi, con un gran ricorso alle delocalizzazioni. Come era ovvio aspettarsi, l’impatto dell’emergenza sanitaria è stato fortissimo. L’intera filiera, tranne rarissime eccezioni, è rimasta completamente ferma nel periodo del lockdown e la ripartenza va davvero troppo lentamente, solo il 30-40% degli addetti è rientrato al lavoro, per gli altri ci sono ancora gli ammortizzatori sociali.
“La chiusura dei mercati di sbocco in Italia, e poi in Europa e nel mondo, ha vanificato tutti gli investimenti realizzati per la stagione primavera-estate del 2020, e comprometterà le vendite della prossima. quella autunno-inverno, a causa del taglio degli ordini", illustra Sonia Paoloni, segretaria nazionale della Filctem Cgil: "Tutto ciò renderà difficilissimo investire per le produzioni dell’estivo 2021. Il rischio reale è la chiusura di molte aziende. Per questo, insieme a Confindustria moda, chiediamo al governo interventi concreti e immediati per sostenere un settore strategico per l’economia del Paese: prolungamento degli ammortizzatori sociali, reshoring, promozione del made in Italy, oltre a favorire l’aumento delle dimensioni aziendali”.
In conclusione, vogliamo dare voce ancora a una lavoratrice, delegata sindacale alla Marzotto, Laura Della Valle ci parla con orgoglio del suo lavoro e dell'azienda nella quale è assunta dal 2000. Un gruppo con oltre 3.500 dipendenti: nel suo stabilimento, quello di Valdagno (Vicenza), sono in 480 circa e quasi tutte donne. Lei è nell’area telai, dalle “sue mani” escono tessuti. Nel corso degli anni la produzione si è diversificata, non più solo lana ma tutti i i filati, con una grande attenzione all’ambiente e al biologico, e altrettanta attenzione anche nei confronti dei dipendenti su salute e sicurezza. La Marzotto è un marchio storico, ma dal 2018 la crisi anche da loro si è fatta sentire, gestita senza quasi ricorrere agli ammortizzatori sociali. Nel 2019 la stagione non è andata bene, e non sono stati confermati i lavoratori a tempo determinato.
“Poi è arrivato il Covid, l’azienda ha fatto di tutto per non chiudere, ma dal 23 marzo a fine aprile ci siamo fermati anche noi. Dal 27 abbiamo provveduto alla sanificazione degli ambienti e alla stesura del 'protocollo sicurezza' e dal 4 maggio siamo tornati tutti a lavoro”. Ma con quale prospettiva? “Da febbraio non abbiamo più ricevuto ordini, Stiamo lavorando alla collezione che avevamo in produzione, anche se la stagione è bruciata", conclude Laura Della Valle: "Si apre uno scenario davvero complicato. Già sappiamo che a luglio e agosto saremo fermi di nuovo. C’è grande preoccupazione tra di noi. Per questa ragione, insieme con la categoria regionale e nazionale, abbiamo deciso di fare le assemblee in presenza: siamo stati i primi in Italia, ma era giusto guardarci negli occhi. Siamo andati avanti per due giorni perché a ogni assemblea non potevano partecipare più di 15 persone: un'ora di incontro, pausa per la sanificazione e un'altra ora di confronto. La partecipazione è stata altissima. Un grande orgoglio per noi e per la Cgil”.