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Ma come fanno i marinai? Stavolta la domanda non è il refrain della celebre canzone di Lucio Dalla e Francesco De Gregori. A rivolgerla agli armatori sono i sindacati. E il problema, come è successo spesso in questi mesi di emergenza covid, ha investito il mondo intero. “Lo scoppio della pandemia, a causa dello stop ai collegamenti internazionali per i passeggeri, sta obbligando i marittimi a periodi di imbarco più lunghi”. A scriverlo in un comunicato congiunto il segretario generale della Filt Cgil, Stefano Malorgio, insieme ai leader di Fit Cisl e Uiltrasporti. Un lockdown speculare a quello sperimentato sulla terraferma, imposto a persone già messe a dura prova, sia fisica che mentale, costrette dalla propria professione, anche in tempi normali, a restare lontane dalle famiglie per mesi. Nel loro caso non poter rientrare, alla data prevista, è un grande sacrificio e aumenta l’ansia e lo stress covati per settimane, mentre il virus scatenava il panico e loro erano chissà dove a migliaia di chilometri da casa. “Il Governo e gli armatori non possono ignorare questa situazione e devono agire subito.
Durante il lockdown il trasporto via mare è stato determinante per garantire l’approvvigionamento di medicine, cibo e altri beni di prima necessità, visto che l’85 per cento delle merci viaggia stivato nelle navi. I marittimi hanno dato e stanno continuando a dare il massimo in condizioni difficili”. È arrivato il momento, per le federazioni di settore, di riconoscere il dovuto, in termini di trattamento e di diritti. La situazione coinvolge circa 200 mila addetti, che aspettano di essere sostituiti con altri colleghi in attesa di imbarco. “Sulle navi va rafforzato il monitoraggio delle condizioni di salute, in generale e in relazione al Covid-19”. Sacrifici e ritardi nell’affrontare la situazione, spiegano i sindacati, suggeriscono caldamente di “riavviare al più presto il confronto sul rinnovo del contratto nazionale, le cui trattative sono giunte ad uno snodo importante ed apprezzato dalle controparti”. Se non si risolvono i problemi rapidamente, è l’avvertimento, “si arriverà presto a un punto di rottura. Come organizzazioni sindacali confederali vorremmo evitare tutto ciò e per questo chiediamo agli armatori, oltre all’impegno già profuso per garantire la salute e la sicurezza dei dipendenti, di fare un ulteriore sforzo per risolvere definitivamente una situazione diventata insostenibile”. Parole con le quali le organizzazioni di rappresentanza hanno motivato anche una richiesta di incontro urgente al governo.
Ma nel concreto perché non possono rientrare? “In molti paesi – ci ha risposto Natale Colombo, segretario nazionale della Filt Cgil – ci sono pesanti restrizioni per il trasporto aereo e marittimo. Così, quando il loro periodo di imbarco termina, se non ci sono i voli per poterli rimpatriare è evidente che sono costretti a restare a bordo. Ma il problema non finisce qui. Perché ci sono migliaia di lavoratori che, per effetto di queste restrizioni, non riescono neanche a reimbarcarsi, in un lavoro, come quello del navigante, che è soggetto a periodi di imbarco e di sbarco. Il cosiddetto avvicendamento ha subito in molti casi un brusco stop. E in tanti, pur avendo maturato nuovamente i requisiti per poter essere reimbarcati, non possono ripartire perché i colleghi che dovrebbero lasciargli il posto non possono sbarcare. Un fenomeno osservato, per certi versi, anche nel nostro paese, sui collegamenti marittimi delle navi traghetto, quando Sicilia e Sardegna hanno chiuso i confini”.
In quali settori è più critica questa situazione? “Impatta moltissimo per le navi da carico e per le navi passeggeri, sia nelle nostre acque che in quelle internazionali, dove si sviluppa molta parte delle prestazioni dei nostri navigatori. A complicare la situazione anche i provvedimenti delle capitanerie di porto. Ce ne sono alcune molto rigide, altre più flessibili. E poi c’è la quarantena, con il suo carico di ulteriori complessità”. Un esempio concreto? “Semplice. Pensate ai cosiddetti marittimi su navi da crociera. Ci sono navi della Costa che stanno ancora girovagando per il mondo. Ce ne sono ancora in Giappone perché non hanno avuto la possibilità di uscire da quei mari. Proprio dieci giorni fa abbiamo salutato il rientro della Diadema. L’equipaggio è stato costretto a passare da diversi porti per arrivare a un cosiddetto porto sicuro. E comunque abbiamo avuto migliaia di marittimi costretti sulle navi, anche senza passeggeri, per diverse settimane, in attesa di individuare un approdo che fosse disponibile ad accoglierli”. Una situazione difficile da gestire. Raccontata all’inizio della crisi, quando avevano avuto grande risonanza le notizie su focolai scoppiati all’interno di grandi navi da crociera. Ma sulla quale era poi calato il silenzio.
Alcuni casi si sono verificati anche nel porto di Genova. “Nei primi giorni – ricorda Enrico Ascheri, coordinatore dei marittimi della Filt Cgil ligure – facemmo addirittura una manifestazione poiché alcuni lavoratori furono trasferiti su una nave della loro compagnia in cui c’erano stati dei casi positivi al covid”. Anche qui, ovviamente, ci sono stati equipaggi posti in quarantena al rientro. Il problema che sta vivendo chi non può rientrare è ben compreso sotto la lanterna. È il paradosso di un settore che “è rimasto l’unico, probabilmente, nel quale si può licenziare anche in questo periodo. Un settore che vede addetti che vorrebbero poter tornare dalle famiglie, ma sono costretti sulle navi, e altri pronti e bisognosi di lavoro, a terra”.
La situazione è seria. I nervi sono tesi, mentre la delicatezza del lavoro richiederebbe lucidità e freschezza. A tutto ciò si è sommata anche la difficoltà, per i nostri connazionali, di essere additati come untori in quanto italiani. E intanto c’è chi continua a restare in alto mare, in tutti i sensi, stavolta più che mai coerenti con il ritratto di Dalla e De Gregori. “Intorno al mondo”, proprio come “un pacco postale”, sognando il ritorno a casa.