“Ho iniziato ad avere paura”. Non trova altre parole l’infermiera toscana con cui abbiamo parlato, dopo essere stata vittima e testimone di episodi di violenza e di aggressione di parenti inferociti, dopo esserne stata ostaggio. Quando lavori in un luogo di cura e arrivi a chiederti quale sia la migliore via di fuga da quel luogo in caso di minaccia alla tua incolumità, qualcosa si è già rotto da tempo. E non ci sono altre parole.

Le aggressioni al personale sanitario sono un bug – bello grosso – del sistema. È il conto che ci presentano anni di tagli al sistema sanitario nazionale. È la logica perversa della privatizzazione, favorita all’inizio quasi alla chetichella dalla dismissione di interi pezzi del servizio di cura, pubblico e gratuito. Un fiume carsico sfociato ormai in una cascata che ha colpito e affondato la fiducia delle persone. 

Così chi ha i soldi trova il modo di curarsi, chi non li ha si sente sempre più solo e sempre più vittima. E reagisce. Si scaglia contro medici e infermieri, confondendo altre vittime del sistema, proprio come loro e i loro congiunti, con i carnefici. Perché gli operatori sanitari, i medici, quelli che lavorano nei pronto soccorso, sono pochi, sempre meno, stremati da ritmi che non gli hanno lasciato tregua neanche dopo la maratona della pandemia. Annichiliti dalla lista d’attesa più lunga che riguarda il mondo della sanità, quella dell’assunzione di nuovo personale, giovane, qualificato, entusiasta, che non arriva mai.

Di fronte a episodi come quello di Foggia, a quelle immagini di terrore nelle quali si vede un pugno di professionisti della cura chiudersi dentro una stanza sotto assedio, spingere contro la porta con tutte le forze per impedire che i parenti entrino e diano seguito alle minacce, urlare disperatamente al telefono che qualcuno li aiuti, il governo pensa di rinforzare i presidi di vigilanza. Come se militarizzare gli ospedali sia la soluzione. Una risposta securitaria, come tante altre il governo ne ha date in questi mesi, che non affronta il vero nocciolo della questione.

Investire sulla sanità. Questa è la risposta. Perché chi sceglie dove indirizzare le poste di bilancio, al netto dei calcoli elettorali, dovrà pur capire che il principio “basta che c’è la salute” resta un caposaldo. Perché in un Paese in cui il sistema universitario della formazione, nei campi della medicina e della ricerca, resta miracolosamente all’avanguardia, in un Paese che invecchia rapidamente, la sanità può diventare un gigantesco volano di sviluppo e un moltiplicatore di Pil.

I sindacati e la Fp Cgil lo gridano da decenni in tutte le sedi possibili, ai tavoli di rinnovo, nelle piazze, nelle iniziative: assumere personale, ammodernare i luoghi di cura, ripensare la filiera della cura sul territorio, rendere più attrattiva questa professione, seguire, una volta tanto, la lezione che ci ha dato il Covid, potrebbe segnare una svolta decisiva per l’Italia e invece rischia di diventare la più grande occasione persa di questi anni.

Il rapporto di fiducia tra i cittadini e lo Stato ormai è in frantumi. E quella della sanità, tra le tante crepe che lo stanno rendendo sempre più fragile e precario, è una faglia che va ricomposta il prima possibile. Rischia di diventare una questione di vita o di morte. Non solo per chi deve curarsi.  

(Interviste video di Simona Ferrari e Lello Saracino)