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L’associazione Lettera150, composta da docenti universitari, alti funzionari dello Stato e rettori, ha redatto un "Decalogo delle riforme" sotto forma di appello a Draghi. Vi si legge all’inizio una dichiarazione condivisibile: “Chiediamo (…) che il governo da Lei autorevolmente guidato realizzi una svolta rispetto a quanto fatto finora, mettendo al primo posto ricerca e innovazione”. Il punto, però, è quali sono le direttrici su cui questi interventi dovrebbero dipanarsi secondo gli estensori del testo. Analizzare questo documento è uno spunto interessante per capire quale idea di università – e anche di società – si vuole mettere sul piatto per i prossimi anni, anche rispetto alle risorse che arriveranno grazie al Recovery plan.
“La crisi politica in corso e la fase eccezionale, l’occasione del Recovery Plan e l’intervento sulle politiche di sistema – spiega Francesco Sinopoli, segretario generale della Flc Cgil – implicano una riflessione su elementi chiave nel funzionamento del Paese. Alta formazione e Ricerca rappresentano due tasselli rilevanti, da una parte per il ruolo di entrambe nella strutturazione del sistema produttivo e del lavoro e dall’altra per la funzione che la conoscenza può assumere nella nostra società, sia nel ridurre che nell’accentuare diseguaglianze e differenze sociali”.
Ma nel merito? Cosa ne pensate?
Le indicazioni dei 150 mescolano elementi di puro buon senso – peraltro ripetutamente negati negli ultimi vent’anni – a slanci poderosi verso un nuovo modello universitario “di servizio” all’attività produttiva. La prima richiesta è infatti quella di più fondi per il settore: una domanda ovvia, dopo un decennio di significativo disinvestimento. I punti che seguono delineano però una radicalizzazione di quella competizione strutturatasi con la cosiddetta riforma Gelmini (legge 240/2010).
E cioè?
Direi semplificazione delle procedure e maggior autonomia degli atenei (sciogliere “i lacci e lacciuoli" dell’inquadramento pubblico), valorizzazione dei dipartimenti “più innovativi”, meritocrazia e chiamate dirette negli Atenei (superiamo la noia dei concorsi pubblici), focalizzazione sulle necessità dell’impresa nella formazione (corsi di laurea e dottorati) e nella ricerca (trasferimento tecnologico e brevetti). Un crescendo rossiniano che ricalca in fondo l’impianto di altri testi recenti, dal già quasi dimenticato "Piano Colao" (ma che ora potrebbe avere vita nuova) dal ai punti sul Piano nazionale di ripresa e resilienza che Italia Viva ha imposto al governo uscente.
Non è un caso che tra i 150 un ruolo importante lo abbia una vecchia conoscenza, quel Giuseppe Valditara, già relatore in aula della legge “Gelmini”, già capo dipartimento Alta formazione e ricerca del ministero dell’Istruzione, università e ricerca.
È così. In realtà questo decalogo non è particolarmente innovativo e ripete per l’ennesima volta indicazioni che da lungo tempo circolano sull’onda della riforma gelminiana, volte appunto a tranciare gli ultimi “lacci e lacciuoli” che caratterizzano un sistema nazionale universitario pubblico e unitario e lo vincolano a un ruolo molteplice, rispondente non solo e non prioritariamente alle necessità delle imprese, ma sia a bisogni sociali complessivi, sia al supporto di processi più generali di cambiamento della stessa struttura sociale. La verità è che della funzione sociale complessiva della ricerca e dell’alta formazione ai firmatari di questa lettera pare infatti importare poco o nulla. Aspirano in fondo a una visione elitaria ed esclusivista della formazione superiore, secondo lo schema che ha accompagnato le politiche universitarie degli ultimi lustri e che ha visto fra i protagonisti di quella stagione proprio il capofila dei firmatari del decalogo, il professor Valditara.
Cosa sarebbe indispensabiliesecondo te, a parte ovviamente i finanziamenti, al nostro sistema universitario?
Direi innanzitutto ciò che risulta sostanzialmente dimenticato dal Decalogo, a parte un vago accenno: gli studenti. L’università italiana è piccola in confronto a quelle europee e in questi anni si è vieppiù rattrappita – perdendo oltre 120 mila iscritti con la crisi del 2009 – con uno dei più bassi tassi di laureati nei paesi Ocse. Sarebbe allora prioritario sostenere l’accesso alla formazione superiore, rilanciando quell’unitarietà del sistema universitario italiano che è già, di fatto, un’eccellenza al mondo. Una recente indagine ha mostrato come, sulle decine di migliaia di atenei nel mondo, il 40 per cento di quelli italiani rientrino tra i primi mille: un dato migliore di Stati Uniti, Cina e Francia (con meno del 10 per cento delle loro università), ma anche di Regno Unito, Germania e Spagna.
E cosa bisognerebbe fare, a questo proposito?
Sarebbe necessario abbassare (come in Francia o Germania) la soglia di accesso all’istruzione superiore, abbattendo le più alte tasse universitarie della Ue e sostenendo un reale diritto allo studio. Sarebbe necessario invertire il processo di disarticolazione del sistema universitario, che rischia di creare come negli Stati Uniti una gerarchia – anche di classe – di percorsi e titoli formativi (university, college, community college con costi e livelli diversi).
E sul piano normativo?
Per rilanciare il’impianto nazionale e carattere unitario del sistema è necessario rivedere la legge Gelmini (la 240/2010), il sistema di valutazione (Anvur, Asp e Vqr) e i criteri di distribuzione delle risorse. Garantire cioè, stabilità e sicurezza a tutte le università e al suo personale, rinnovando il contratto nazionale, stabilizzando i precari moltiplicatisi nell’ultimo decennio nella didattica, nella ricerca e nei ruoli tecnico-amministrativi e re-internalizzando appalti e servizi. Infine bisogna riportare nel perimetro pubblico i centri cresciuti in questi anni all’esterno (dall’Iit allo Human Technopole), evitando la loro moltiplicazione, come tratteggiato nelle prime bozze del Pnrr. Si tratta di due modelli diversi, se non opposti, di università e in fondo anche di società. Vedremo su quale dei due punterà il nuovo governo Draghi.