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In queste settimane che sono passate dalla consultazione sulla proposta del nuovo segretario generale fino alla riunione del Comitato direttivo di oggi, ho provato a interrogarmi sul senso da dare, nella fase che viviamo, a quel discorso programmatico che le nostre regole prevedono prima dell’esercizio del voto. Da un lato, la forza ma anche la freddezza delle regole formali (senza le quali non saremmo la Cgil che siamo, e che per questo così abbiamo voluto dopo il superamento del vecchio modello politico-organizzativo di gestione della Cgil), dall’altro, le vicende in cui siamo immersi, l’ampiezza dell’iniziativa generale che ci vede protagonisti e ci mette al centro della stagione sociale e politica caricandoci di grandi responsabilità.
Mi sembrava per un verso scontato e per un verso troppo poco da parte mia confermare di fronte al Comitato direttivo di volermi attenere a quelle scelte che sono o dovrebbero essere la buona regola per chi è chiamato a svolgere responsabilità e funzioni di segretario generale, indipendentemente dal livello di direzione. La lealtà verso le scelte programmatiche assunte dal congresso; la coerenza tra quello che abbiamo deciso, quanto stiamo facendo e i comportamenti futuri; il rispetto pieno e non burocratico dei pluralismi che attraversano e sono la vita della Cgil, e anche dell’identità delle persone che rappresentiamo; la valorizzazione delle idee che sono nel dibattito, nella ricerca e nella passione della Cgil.
È giusto che tutto questo venga riaffermato da parte mia in modo convinto. Nella vita delle grandi organizzazioni, la forza delle regole non consiste solo nel rispetto delle procedure formali, ma anche nel rapporto che lega le procedure ai contenuti che le fanno vivere. Quando si chiede o si affida un mandato, è giusto che il collegio, l’organismo che ha la sovranità per farlo, possa misurarsi con un atto che spero chiaro e trasparente.
Ringrazio le compagne e i compagni che si sono espressi sulla proposta che Sergio Cofferati ha voluto avanzare al comitato dei saggi. Se il direttivo confermerà con il voto segreto questa indicazione, mi conferirà un mandato che proverò ad assolvere al meglio delle mie capacità.
Lo intendo davvero, e confido di restare coerente all’impegno, come scelta al servizio della Cgil intesa come organizzazione generale di persone che nella loro condizione di lavoro, di pensione, di disoccupazione, di studio, di emarginazione, sostengono il bisogno e la realizzazione di un’idea di società che metta al primo posto il tema dei diritti, dell’uguaglianza, dell’autonomia, dell’identità e delle responsabilità personali, nel lavoro e nella vita. E un’idea di sviluppo fondato sulla qualità, sui saperi e le conoscenze, sul rispetto dell’ambiente. Sono loro, persone e valori, i veri protagonisti della grande mobilitazione in cui siamo impegnati.
Noi non potremmo reggere lo scontro sull’articolo 18, l’impegno contro un’idea di flessibilità fondata sulla precarietà e l’esclusione, contro un’idea corporativa e selettiva dei diritti della cittadinanza e del lavoro; e il nostro impegno per un ordine mondiale fondato sulla pace e la sicurezza per tutti, e per una globalizzazione in grado di avvicinare gli ultimi, i più poveri, ai primi, i più ricchi, se non crescesse contro ogni previsione, contro la propaganda di chi ha i mezzi, ma non la ragione, una domanda e un impegno di cambiamento così forte.
Cosa c’è di altro dietro la forza dei processi che fanno riemergere un’idea alta della centralità del valore del lavoro, se non un insieme di condizioni materiali e culturali che segnano l’identità della persona che lavora, o che aspira a lavorare, e non si rassegna a essere trattata, catalogata e definita sempre come un mezzo e mai come un fine: un fine nel lavoro? E come noi possiamo spiegare la folla del 23 marzo – che è insieme la più grande manifestazione di lavoratori e di pensionati e la più grande manifestazione di giovani che ci sia mai stata in Italia – se non con il fatto che i più ormai capiscono come sia insensato e regressivo culturalmente contrapporre padri a figli, giovani ad anziani, garantiti a precari?
Se non si unisce il filo dell’identità – che proviene dalla memoria di chi ha vissuto e ha fatto – con la forza del cambiamento che chi è giovane vive come fondamento della propria ricerca d’identità, avremo un futuro che rinnega il passato (e quando parliamo di diritti è un brutto futuro) o un’identità rassegnata che fugge dalla comprensione di nuovi bisogni, di nuovi linguaggi, delle nuove domande formative e di sicurezza. Noi, a partire da Sergio, abbiamo avuto il merito di comprendere quello che stava cambiando, di leggere sotto la filigrana dei punti di vista omologati e di tenere una linea e un’identità di grande coerenza.
Abbiamo avuto la forza morale di resistere alle piccole e grandi intimidazioni che ci sono state, che ci sono e che continueranno; e anche la forza di respingere il disegno di chi ci voleva all’angolo, sempre più settari, sempre più estremisti. La nostra coerenza, la nostra radicalità sono figlie di un’idea alta di riformismo, che anche quando si scontra con le posizioni delle altre grandi confederazioni e con quelle dei grandi soggetti di rappresentanza, mantiene l’ambizione che i propri obiettivi siano giusti per tutti, e i risultati possibili.
Sta qui anche la risposta alla contraddizione che si può porre tra la forza di un’identità coerente e le opinioni degli altri; il dilemma dell’unità: o soli, o, se insieme, meno coerenti. Noi, infatti, non siamo soli: le nostre ragioni, giorno dopo giorno si affermano e cresce il consenso di tanti anche al di là dei nostri insediamenti. Questo spingerà molti a chiederci di riprendere il filo di un rapporto, di un’interlocuzione, di un confronto. Una parte interessata, (che prima o poi vedrà in campo anche governo e Confindustria) ci chiederà responsabilità, tanto più di fronte a un’economia in discesa, a una finanza pubblica fuori controllo, ai rischi di una guerra in Medio Oriente.
Nel risvolto di quello che abbiamo fatto, c’è sempre stata una scelta di responsabilità: siamo per lo sviluppo, ma fondato sulla qualità e sul rispetto dei diritti; siamo per una politica dei redditi, ma fondata sull’equità e sull’esigenza di sostenere i redditi da lavoro dopo anni di redistribuzione della produttività in direzione delle imprese; siamo per una verifica degli accordi fatti in materia di contrattazione, ma non per ridurre gradi di copertura, tutele e diritti, siamo per il buon compromesso nelle mediazioni interne al mondo sindacale, quando queste non contravvengano i valori che ispirano non la sola Cgil ma il senso del sindacato generale (e quindi di quello che deve essere il sindacato unitario), e siano condivise e rese certe le regole fondamentali della democrazia: che non possono negare ai lavoratori il diritto di convalidare piattaforme e accordi.
No. La responsabilità oggi va chiesta ad altri. Ai ceti che in questo anno sono stati avvantaggiati dalla politica del centro-destra; alle imprese che hanno voluto una Confindustria tanto di classe quanto arrogante e alla fine controproducente; al governo, che se vuole provare di nuovo a essere interlocutore, deve cancellare le scelte fatte sui diritti, le politiche sociali, fiscali, economiche e del lavoro. Quando il paese si troverà fra poco di fronte ai guasti prodotti dall’azione del governo, ognuno sarà in campo per le proprie responsabilità. Noi ci auguriamo, per il bene del paese e dei lavoratori e soprattutto dei giovani, che la situazione non diventi più pesante, che si possano arrestare e prevenire errori e scelte sbagliate, che la Cisl e la Uil possano riflettere su quanto è accaduto senza attestarsi sulla difesa di un Patto che, giorno dopo giorno, come ha detto il presidente di Confcommercio, si dimostra un imbroglio.
Ma il realismo ci impone di vedere le cose per come sono. E’ dentro questo quadro che un intervento armato in Iraq suscita la nostra contrarietà e opposizione. Non si risponde attraverso la guerra alla domanda di sicurezza che c’è, alla giusta lotta contro il terrorismo, all’esigenza fondata che quel paese, la cui politica dissennata ha seminato lutti e guerre in tutta l’area e colpito la propria popolazione, osservi e rispetti le richieste dell’Onu. Se così fosse, domani, chiunque, in qualsiasi parte del mondo, potrebbe usare la forza in chiave di difesa preventiva, e la guerra diventare il mezzo ordinario di risoluzionedei conflitti tra Stati, e la violenza o il terrorismo sempre più arma dei più deboli. Paghiamo qui l’incapacità e la non volontà di rendere autorevoli, forti ed efficaci gli organismi internazionali, sia sul piano economico-finanziario e delle regole della globalizzazione, che su quello politico- diplomatico. Una sconfitta che potrebbe diventare, per un’Europa che volesse giocare nel futuro un reale ruolo autonomo nella dimensione mondiale, una grande opportunità; altro, invece, è quello che si sta consumando. Un’Europa che non esce dalle sue divisioni e perciò dalla sua debolezza.
Ai giovani, che sono la nostra grande risorsa, a tanti che hanno incontrato la Cgil, dobbiamo saper prospettare una società insieme più solidale e più attenta alle libertà individuali. Solidale nei valori, nel rispetto dei pari diritti degli altri, di tutti gli altri, nella qualità del sistema di welfare e di formazione; libera nei percorsi, nelle scelte, nella possibilità di rischiare e nei riconoscimenti delle capacità individuali. Il futuro vero dell’Italia, e dell’Europa – sospese tra declino e sviluppo – è proprio nella capacità di tenere in equilibrio la funzione sociale economica e culturale degli anziani con la forza del rinnovamento che i giovani e coloro che vengono in Italia a lavorare e a studiare da altri paesi possono portare. Un’Italia chiusa è un paese che declinerà più rapidamente, tra paure e sistemi di rendite. Incapace di capire e di reagire. E lo stesso vale per l’Europa.
Per questo ci vuole un paese in cui ci siano un mercato migliore e uno stato migliore, un welfare universale più forte per tutelare meglio una maggiore propensione al cambiamento e un sistema in fatto di tutele più dinamico, poiché quello che abbiamo è specchio e causa del declino del paese e dell’incapacità di superare i tanti squilibri territoriali che tuttora permangono, dei quali il Mezzogiorno deve tornare ad essere il cuore, anche per noi.
Il lavoro che ci aspetta non è facile. Il confronto con una Finanziaria che si presenterà iniqua e populista; uno sciopero generale da preparare e far crescere anche contro i molti che lavoreranno per farlo fallire; una stagione contrattuale che nasce nel segno della divisione sindacale e di un ciclo economico che rallenta, una campagna sui diritti che dobbiamo far durare nel tempo ed estendere. Ma la forza delle nostre ragioni e la condivisione che cresce tra i lavoratori ci dicono che possiamo avere una ragionevole fiducia nel futuro. Come ci dicono: «andate avanti». In più possiamo contare su una Cgil unita e un gruppo dirigente sostanzialmente rinnovato. A Roma e nei territori.
L’augurio che faccio a tutti noi, a partire dalla segreteria confederale, è di portare la nostra Cgil al compimento dei 100 anni di vita altrettanto unita e autorevole come è oggi. Il grande merito di Sergio è stato questo: una Cgil autonoma, forte, unita, amata, rispettata, temuta. E di lui, che dire? Un lavoro faticoso, una dedizione continua, uno spirito di sacrificio che raramente si incontrano. Con Sergio abbiamo lavorato in questi dodici anni, se posso dire, spalla a spalla. Abbiamo condiviso scelte, preso decisioni difficili, qualche volta discusso con passione. E con noi molti dei compagni del Comitato direttivo e che sono qui presenti, altri, come Bruno Trentin, Pizzinato, Del Turco e Bertinotti, impegnati in funzioni di rappresentanza parlamentare e politica; altri ancora che invece ci hanno lasciato, spesso all’improvviso, dedicando alla Cgil la loro passione e la loro vita. In tutta onestà, senza concessioni al momento, penso che con la segreteria di Sergio la Cgil abbia raggiunto un altissimo livello di autorevolezza e sia diventata il punto di riferimento fondamentale per tutti: lavoratori, giovani, anziani. Senza la nostra iniziativa e la grande manifestazione del 23 marzo anche il sindacato europeo sarebbe stato più debole. Negli scioperi spagnoli, nelle iniziative sindacali in Francia, Germania, Inghilterra, noi abbiamo costituito l’esempio e il riferimento di una sfida che ha, in Italia come in Europa, al centro un’idea di sviluppo, un’idea dei diritti, un’idea di cittadinanza e coesione sociale. Allo stesso modo, Sergio rappresenta una speranza e un punto di fiducia per molti. Bastava essere sabato scorso a piazza San Giovanni per toccarlo con mano.
Non spetta a noi, né a me, non qui e non oggi, interrogarci e chiederci come questa forza e questa autorevolezza personale possano diventare una risorsa politica, oltre che pubblica e civile. A noi basta sapere che dalla Fondazione Di Vittorio, la nostra Fondazione, dal luogo di lavoro in cui ha scelto con coraggio di rientrare, o in qualsiasi altro posto, Sergio porterà anche per noi le ragioni del lavoro, i suoi valori, i suoi diritti. E contribuirà a far crescere la cultura dei diritti: civili, politici, democratici. Ed è per questo che oggi il saluto e il ringraziamento sono anche il punto di partenza di un nuovo inizio. Il viaggio – nella metafora preferita da Sergio e dai poeti che amano la vita – non s’interrompe, riparte. Se posso dire, con meno nebbia e una barca un po’ più solida di quella che viveva nel bel racconto di Tonino Guerra che emozionò la platea dei delegati dell’Eur.
E voglio dare atto a Sergio di un’ultima cosa, che finisce per riguardare insieme con la Cgil anche molti di noi. Con l’elezione a segretario generale di un compagno di formazione politica e ideale socialista, si porta a compimento il processo avviato con lo scioglimento delle componenti politiche oltre dieci anni fa: una scelta che ha rafforzato l’autonomia della Cgil, ci ha portato a definire un impianto forte di regole e procedure generali, con i necessari equilibri e funzioni di controllo, e a riconoscerci nei fondamenti programmatici e di valore comuni.
Anche per questo si carica su di me una più alta responsabilità che spero, insieme con le compagne e i compagni della segreteria confederale e con tutti voi, di saper affrontare.
Anche perché il valore dell’autonomia è fondamento della libertà e della responsabilità di ognuno di noi; della nostra unità, della nostra democrazia.
(da Rassegna Sindacale, 1° ottobre 2002, n. 35)