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Sono passati esattamente 30 anni dal 23 maggio 1992. Un giorno, un anno, che ha cambiato radicalmente la storia del nostro Paese. Il 25 aprile con un interminabile messaggio televisivo (45 minuti), si è dimesso, con sei mesi di anticipo, Francesco Cossiga, ottavo presidente della Repubblica. Il 23 maggio si consuma la strage di Capaci.
Quel pomeriggio l’auto di Giovanni Falcone sfreccia lungo l’autostrada A29. La precede la Croma marrone degli uomini della scorta: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. È quella la prima auto a saltare in aria alle 17.57.
Anche la Fiat su cui viaggiano i due magistrati, Falcone e sua moglie Francesca Morvillo, viene investita dall’esplosione. Si salva l’autista e si salvano gli agenti della terza automobile. Sono a pochi chilometri da Palermo. All’altezza dello svincolo di Capaci. La mafia ha colpito. Lo ha fatto ancora. Lo rifarà presto perché i giudici scomodi vanno fatti scomparire.
È morto - scriverà Attilio Bolzoni - È morto nella sua Palermo. È morto fra le lamiere di un'auto blindata. È morto dentro il tritolo che apre la terra. È morto insieme ai compagni che per dieci anni l'avevano tenuto in vita coi mitra in mano. È morto con sua moglie Francesca. È morto, Giovanni Falcone. È morto. Ucciso dalla mafia siciliana alle 17 e 58 del 23 maggio del 1992. La più infame delle stragi si consuma in cento metri di autostrada che portano all’inferno. Dove mille chili di tritolo sventrano l’asfalto e scagliano in aria uomini, alberi, macchine. C’è un boato enorme, sembra un tuono, sembra un vulcano che scarica la sua rabbia. In trenta, in trenta interminabili secondi il cielo rosso di una sera d’estate diventa nero, volano in alto le automobili corazzate, sprofondano in una voragine, spariscono sotto le macerie. Muore il giudice, muore Francesca, muoiono tre poliziotti della sua scorta. Ci sono anche sette feriti, ma c’è chi dice che sono più di dieci. Alcuni hanno le gambe spezzate, altri sono in fin di vita. Un bombardamento, la guerra.
“Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande - diceva lo stesso Falcone - Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.
Il 25 maggio, mentre lo Stato elegge a Roma Oscar Luigi Scalfaro presidente della Repubblica, nella chiesa di San Domenico a Palermo si svolgono i funerali delle vittime. Forte sarà la contestazione ai politici presenti, mentre le immagini televisive trasporteranno nelle case di tutti gli italiani le parole e il pianto straziante della giovanissima Rosaria, vedova dell’agente Schifani.
“Piove sul dolore - scriverà la Repubblica - sulla rabbia, sull’indifferenza, sulla rassegnazione dei palermitani. Nel giorno dei funerali di Giovanni Falcone, di sua moglie e della sua scorta, la città ha un volto livido, dimesso, irreale. Piazza San Domenico è gremita. Migliaia di persone sotto un diluvio scrosciante, gli ombrelli aperti, i capelli bagnati, le lacrime, le urla, i fischi. Applausi ai morti, insulti ai vivi. (…) Tutto e il contrario di tutto. Sui muri ingialliscono ancora i manifesti del Comune per Salvo Lima, ‘barbaramente assassinato’. Pochi centimetri accanto, Cgil-Cisl-Uil esprimono cordoglio per il giudice antimafia e le altre vittime”.
“Gli amici di Falcone - scrive ancora il giornale - quei compagni di lavoro e di vita che gli hanno regalato, diceva, ‘la più esaltante stagione della sua esistenza’ tacciono. Inorriditi dalla morte di Giovanni, inorriditi dalla retorica del rito pubblico, inorriditi da quelle urla che non hanno risparmiato i morti nelle bare. Tace Paolo Borsellino, ‘l’amico fraterno’, il ‘fratello maggiore’ di Falcone. È immobile in un angolo. Ha gli occhi fissi sulla bara, un’espressione irrigidita sul volto che si ha paura a pensare quando si scioglierà. Tace Giuseppe Ayala, il ‘fratello minore”', intelligente e scapestrato, ora parlamentare. A lui la piccolissima Palermo degli onesti regala un applauso quando qualcuno gli grida: ‘Ayala torna a fare il giudice’. È uno dei due applausi, se si escludono quelli rivolti ai feretri, che risuonano nello spettrale androne del Palazzo dei Veleni. L’altro sarà riservato a Tano Grasso, il commerciante di Capo d’Orlando divenuto leader antiracket per necessità”.
Sempre il 25 maggio Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale, mentre poco più di un mese dopo, il 27 giugno, una manifestazione unitaria vedrà sfilare a Palermo oltre 100 mila persone contro la mafia e per la legalità.
“Un groppo in gola strozza la voce a Bruno Trentin - riportava il giorno dopo l’Unità - a lui che da decenni grida sulle piazze i diritti dei lavoratori, quando evoca nel nome dell’amico scomparso un futuro riscatto: caro Giovanni, quel giorno verrà…”.
“Sono stati giorni molto tristi - annotava il 28 maggio Bruno nei sui diari - Il 23 maggio ad Amelia apprendo con Marie l’assassinio di Giovanni Falcone, di sua moglie Francesca e dei ragazzi della sua scorta. Sembra assurdo e incredibile e tanto più incredibile perché si trattava della puntuale verifica di uno dei suoi teoremi: “quando uno è solo è delegittimato”. Mi ritornano alla mente tutti i nostri incontri, con insistenza ossessiva, giorno e notte. I giorni di San Candido. La cena alla Enzian Hutte con Francesca e suo fratello, con Giovanni in grande forma e lucidità. I suoi commenti amari sull’uccisione del Procuratore della Cassazione, in Calabria (…). Lunedì 25 mi ritrovo a Palermo, come in un sogno, ai suoi funerali”.
“Giovanni sapeva di dovere morire - scriveranno in tanti - Ma gli è toccato morire con l’amarezza di essere lasciato solo”.
La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni (Giovanni Falcone)