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Una sanità che funziona deve costare sempre di più. No, non è un errore di battitura, il concetto è proprio questo: è necessario ed anche giusto che la sanità costi sempre di più, anno dopo anno. Questo, naturalmente, a patto che l’obiettivo resti quello di salvare vite, allungarle, migliorarne la qualità nel tempo, scoprire nuove malattie, sviluppare tecnologie innovative per la cura, etc. Purtroppo, la sanità pubblica italiana non va in questa direzione: nel 2023 il rapporto della spesa sanitaria rispetto al Pil nel nostro paese è sceso dal 6,8% al 6,3% e le previsioni sul 2024 e 2025, pur conteggiando i nuovi finanziamenti previsti dal governo, stimano che la spesa sanitaria non supererà il 6,5% del Pil, restando ben al di sotto della media Ue e della media Ocse, entrambe del 7,1% (Rapporto Gimbe 2023).
Un’idea distorta di sanità
“La sanità italiana ha intrapreso, da tempo, una discesa che non sembra in via di recupero”, ci dice la professoressa Alessandra Pioggia, ordinaria di Diritto amministrativo presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Perugia ed esperta di diritto sanitario. Pioggia ha tenuto corsi di insegnamento in diversi ambiti del diritto pubblico e attualmente insegna Diritto sanitario e dei servizi sociali e Management e innovazione nella pubblica amministrazione. I suoi approfonditi studi in materia di sanità, l’hanno convinta che, prima ancora delle ragioni economiche, esistono profonde ragioni culturali alla base del declino che è in atto.
“Negli anni ’90, con la seconda riforma del sistema sanitario, dopo la 833 - spiega - si è affermata nel nostro paese un’idea di sanità come macchina produttiva di servizi. È stata sostanzialmente rimossa dal discorso pubblico la dimensione identitaria, collettiva e democratica della questione. La piena adesione ad un’idea di efficienza, a sfondo economico, ha finito per immiserire la concezione di servizio pubblico su cui si era fondata nel 1978 l’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale”. Secondo la professoressa, infatti, le aziende sanitarie, nate proprio in quegli anni, sono state concepite come “apparati di produzione di prestazioni, pesate in termini economici”. Apparati di produzione da mettere in concorrenza fra loro e con i privati accreditati.
Questione “aziendale”
In pratica, come ha scritto la giurista in un suo recente articolo per la rivista Mondoperaio, “l’idea di mercato ha fatto il suo trionfale ingresso in un mondo che era stato pensato e poi progettato come produzione collettiva di benessere sociale (dalla società verso la società) fuori dal mercato, in cui prevenzione e partecipazione si saldavano fra loro in un progetto di collettività che, insieme alla salute, promuoveva conoscenza, informazione e controllo democratico sui servizi”. Così, nel pieno della sbornia neoliberista del “New public management”, la sanità pubblica è diventata sempre di più una questione “aziendale” e le scelte sulla sua organizzazione e sul suo funzionamento sono state presentate tutte come “tecnicamente dovute”, perché necessarie a rendere efficiente e sostenibile il sistema.
Il modello Lombardia
L’aziendalizzazione della sanità ha aperto poi la strada al concetto di “prestazione”, che si è progressivamente sostituto a quello di “cura”. Questo ha naturalmente favorito la crescita della sanità privata, che per vocazione eroga prestazioni con l’obiettivo del profitto. Spiega ancora la professoressa Pioggia: “È in questo clima culturale dei primi anni ’90 che la sanità privata viene messa in concorrenza con quella pubblica, nella convinzione che questo possa stimolare la crescita complessiva del sistema. La Lombardia in particolare è il terreno di sperimentazione di questo modello della ‘libera scelta’ tra pubblico e privato. Una sperimentazione che si rivela presto fallimentare, perché una grande offerta di prestazioni sanitarie ne aumenta la domanda, e questo rende ingovernabile la spesa”.
Tant’è che la stessa Lombardia fa presto marcia indietro e comincia a programmare – come avviene oggi in tutte le regioni – un tetto di spesa per la sanità privata convenzionata (cioè pagata dal pubblico). “Questo per dire che il privato non può mai essere messo al pari del pubblico – chiosa la professoressa Pioggia – ma può rappresentare in una prospettiva collaborativa e non competitiva, uno strumento attraverso il quale il pubblico può soddisfare appieno i bisogni della comunità. Resta però fondamentale che la logica e la regia del sistema siano saldamente pubbliche”.
Lo studio inglese: privatizzare nuoce alla salute
E a proposito di progressiva privatizzazione della sanità, c’è un ultimo dato sul quale la professoressa Pioggia invita a riflettere. In Italia non sono mai stati condotti studi scientifici sull’effetto delle privatizzazioni in sanità in termini di salute della popolazione, ma in Gran Bretagna, dove esiste un sistema sanitario molto simile al nostro, sì. Nel 2022 un importante studio pubblicato dalla prestigiosa rivista The Lancet ha dimostrato che ad ogni punto percentuale di attività sanitaria privatizzata corrisponde un incremento della mortalità evitabile.
“Ritengo questo studio molto interessante – conclude Pioggia – perché ci dice: attenzione, il ricorso al privato, aldilà dell’erogazione della prestazione in sé, comporta il venir meno di una presa in carico complessiva, che è fatta anche di ciò che separa una prestazione dall’altra, e cioè di relazione e di contatto, tutti elementi che costituiscono appunto un rapporto di cura. Questo non può essere garantito se si ragiona in un’ottica puramente prestazionale. Ecco perché occorre uscire dal paradigma aziendale, in cui si ragiona per prestazioni, trascurando la dimensione complessiva della cura e restituire alla sanità il suo originario ruolo di strumento della democrazia”.