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Il 16 maggio 1955, la mafia uccide Salvatore Carnevale, socialista, sindacalista della Cgil, fondatore e segretario della Camera del lavoro di Sciara (Palermo). Si stava recando al lavoro presso una cava, nella proprietà dei Notabartolo, gestita dalla Lambertini, impresa emiliana, che forniva materiale inerte per il raddoppio della ferrovia della tratta di Termini.
"Di Turiddu - diceva Emanuele Macaluso nel 2013 - ho un ricordo vivissimo veniva alle riunioni, partecipava attivamente alle nostre iniziative. Era una persona determinata come tanti capilega di allora, un combattente dedito agli ideali di giustizia per rendere più umane le condizioni di vita nelle campagne”. Un impegno che la mafia non gli perdona, uccidendolo con sei colpi di lupara che lo straziano in pieno giorno.
Il primo dirigente politico a recarsi sul posto appena saputo dell’omicidio è il senatore Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica (la vicenda relativa all’omicidio di Salvatore Carnevale vedrà protagonisti due futuri presidenti della Repubblica, tre, se si considera anche la visita a Francesca Serio di Giorgio Napolitano arrivato tra i primi sul luogo del delitto: Sandro Pertini, a fianco di mamma Carnevale per tutta la durata del processo, e Giovanni Leone membro nel collegio di difesa in Cassazione degli imputati Giorgio Panzeca, Antonio Mangiafridda, Luigi Tardibuono e Giovanni di Bella, condannati all’ergastolo in primo grado ed assolti in appello e in Cassazione per insufficienza di prove).
Sarà proprio lui a concludere la manifestazione tenutasi a Sciara otto giorni dopo l’omicidio. Nell’occasione sarà inaugurata una lapide sul luogo del delitto con la scritta: “Qui nel luogo del lavoro e della lotta tra il feudo e la cava, all’alba del 16 maggio 1955, Salvatore Carnevale fu barbaramente assassinato. I compagni e il popolo posero nell’ottavo giorno del suo sacrificio come impegno di più fiera battaglia per la giustizia, per la liberazione della Sicilia”.
“Ma il prefetto Sante Jannone - racconta Dino Paternostro - con un decisionismo burocratico degno di miglior causa, fece cancellare la parola “popolo”, che ancora oggi resta coperta da una pennellata di calce bianca, rendendola paradossalmente ancora più visibile”.
Il delitto Carnevale avrà una vastissima eco in tutta Italia resa maggiore anche una straordinaria mobilitazione del mondo della cultura. In occasione del III Congresso nazionale della cultura popolare (Livorno, 6-8 gennaio 1956), Ignazio Buttitta gli dedica la poesia Lamentu pi la morti di Turiddu Carnivali.
Angelo era e non aveva ali,
non santo eppur miracoli faceva,
in ciel saliva senza corde e scale
e senza alcun sostegno ne scendeva.
Era l’amore il suo capitale,
questa ricchezza a tutti la spartiva.
Turiddu Carnivali era chiamato
e come Cristo morì ammazzato.
Parole bellissime, recitate da Ciccio Busacca - “un uomo piccolo, bruno e visibilmente intimidito dalle luci e dal palco” - per una platea decisamente diversa dai passanti e curiosi dei paesi di Sicilia cui il cantastorie è abituato. Tra il pubblico che lo ascolta spiccano infatti i nomi di Luchino Visconti, Cesare Zavattini, Carlo Levi. Quello stesso Carlo Levi che alla mamma di Salvatore, Francesca Serio, dedicherà alcune delle pagine più belle dei suoi scritti.
“Una donna di cinquant’anni - scriverà - ancora giovanile nel corpo snello e nell’aspetto, ancora bella nei neri occhi acuti, nel bianco-bruno colore della pelle, nei neri capelli, nelle bianche labbra sottili, nei denti minuti e taglienti, nelle lunghe mani espressive e parlanti; di una bellezza dura, asciugata, violenta, opaca come una pietra, spietata, apparentemente disumana”. Una donna che, dopo la morte del figlio, ne raccoglie l’eredità ed accusa i mafiosi.
“Niente altro esiste di lei e per lei - scrive ancora Levi - se non questo processo che essa istruisce e svolge da sola, seduta nella sua sedia di fianco al letto: il processo del feudo, della condizione servile contadina, il processo della mafia e dello Stato. Essa stessa si identifica totalmente con il suo processo e ha le sue qualità: acuta, attenta, diffidente, astuta, abile, imperiosa, implacabile. Così questa donna si è fatta in un giorno: le lacrime non sono più lacrime ma parole, e le parole sono pietre. Parla con la durezza e la precisione di un processo verbale, con una profonda assoluta sicurezza, come chi ha raggiunto d’improvviso un punto fermo su cui può poggiare, una certezza: questa certezza che le asciuga il pianto e la fa spietata, è la Giustizia. La giustizia vera, la giustizia come realtà della propria azione, come decisione presa una volta per tutte e a cui non si torna indietro: non la giustizia dei giudici, la giustizia ufficiale. Di questa Francesca diffida, e la disprezza: questa fa parte dell’ingiustizia che è nelle cose”.