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La sera del 10 marzo 1948 Placido Rizzotto, 34 anni, partigiano e segretario generale della Camera del lavoro di Corleone, è sequestrato da un gruppo di persone guidato da Luciano Liggio. Lo circondano in strada a Corleone, lo caricano sulla 1100 di Liggio, lo portano in una fattoria di Contrada Malvello, lo picchiano a sangue e gli fracassano il cranio. Poi fanno sparire il corpo.
Sarà il capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla Chiesa a indagare sul delitto Rizzotto: il lavoro dell’ufficiale, destinato a divenire un nome celebre nel corso dei decenni successivi, porterà all’incriminazione di Luciano Liggio, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura che tuttavia, alla fine del 1952, verranno assolti per insufficienza di prove.
Per uno strano scherzo del destino, attorno all’omicidio di Placido Rizzotto ci sarà una convergenza di giovani uomini che diventeranno noti: da una parte Carlo Alberto Dalla Chiesa e Pio La Torre, giovane studente universitario che sostituirà Rizzotto alla guida dei contadini, dall’altra, Luciano Liggio e i suoi uomini che arriveranno ai vertici della mafia. Il rapimento di Placido Rizzotto scuote le coscienze e immediata è la presa di posizione della Cgil.
Il 18 marzo si riunisce la segreteria confederale, presenti Bitossi, Cuzzaniti, Dalla Chiesa, Di Vittorio, Parri, Santi e un giovanissimo Luciano Lama. Primo punto all’ordine del giorno: la situazione sindacale in Sicilia. Di Vittorio riferisce sul gravissimo fatto della sparizione di Placido Rizzotto e propone la convocazione del comitato esecutivo in Sicilia per l’esame della situazione.
Nonostante il voto negativo della corrente democristiana (la Cgil è ancora unitaria, la scissione avverrà solo nel luglio dello stesso 1948, conseguenza dell’attentato a Palmiro Togliatti del 14), il comitato esecutivo confederale si riunisce il 31 marzo a Palermo. Di Vittorio, confermando che il problema siciliano è un problema nazionale, avanza delle proposte che vengono discusse e approvate.
Di fronte all’inerzia del governo nel condurre le indagini, la Cgil decide di dare un premio di mezzo milione di lire a chiunque darà notizie utili a ritrovare Rizzotto e a scoprire i colpevoli del delitto: una cifra importante se si pensa che nel 1950 lo stipendio medio di un operaio è di 25/30.000 lire circa. Ma nonostante gli appelli e gli sforzi fatti il corpo non sarà ritrovato e con il passare degli anni e la scalata al potere mafioso di Liggio per lungo tempo a Corleone non si parlerà più di Placido Rizzotto.
Soltanto negli anni Settanta un gruppo di giovani coraggiosi darà vita al circolo popolare ‘Placido Rizzotto’, un’esperienza che si concluderà, però, in pochi mesi. Il 7 luglio 2009 all’interno della foiba di Rocca Busambra a Corleone vengono rinvenuti resti umani. Nel marzo 2012 l’esame del dna, comparato con quello estratto dal padre di Placido, Carmelo Rizzotto, morto da tempo, confermerà l’appartenenza al sindacalista siciliano dei resti rinvenuti.
Il 16 marzo 2012 il Consiglio dei ministri deciderà per Placido Rizzotto i funerali di Stato, svoltisi a Corleone il 24 maggio 2012. Insieme con il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e alla segretaria generale della Cgil Susanna Camusso, quel giorno a Corleone era idealmente presente tutta l’Italia che combatteva e combatte per la legalità e la giustizia sociale.
“Diciamolo che Rizzotto denunciava la mafia - tuonava davanti al cimitero di Corleone quel 24 maggio don Luigi Ciotti - e che in questi 64 anni Placido Rizzotto ha continuato a parlare da quella fessura della terra per bocca di Giuseppe Letizia, il ragazzino di 12 anni che vide gli assassini e fu ucciso (“Anche lui è un martire”, aggiungerà Emanuele Macaluso), per bocca del giovane Carlo Alberto Dalla Chiesa che condusse le indagini e di Pio La Torre, successore di Placido alla Camera del lavoro di Corleone. Lo spirito di Placido Rizzotto ha continuato e continua a vivere nei tanti che le sue lotte non si sono limitati a ricordarle ma le hanno assunte come un grande impegno. (...) Placido Rizzotto, però, oggi ci chiede una cosa: ci chiede di aprire gli occhi, di non ripiegarci negli egoismi e nelle paure, nell’indifferenza e nella protesta sterile, di non scaricare sugli altri le nostre omissioni e le nostre responsabilità. (...) Contro la mafia è il noi che vince, la vittoria non è opera di navigatori solitari”.
“C’è sempre bisogno della presenza dello Stato - aggiungeva Giorgio Napolitano - e non abbiamo mai pensato, neanche per un momento, che la mafia fosse finita. Finirà, ma non è ancora finita”.
“Il ritrovamento dei resti di Placido Rizzotto e i funerali di oggi segnano una nuova sconfitta per la mafia - scriveva nel suo editoriale in prima pagina su l’Unità Guglielmo Epifani - Quello che si voleva nascondere per sempre è riemerso dal buio, suscitando nuove emozioni e offrendo nuove ragioni nell’impegno di lotta contro tutte le mafie. Il luogo del delitto, Corleone, diventa il luogo dell’omaggio e della riconoscenza di tutto il paese. Il martire del lavoro diventa così un martire della democrazia. La sua tomba è destinata a diventare uno dei luoghi del pellegrinaggio laico in memoria delle vittime, e il suo nome forse tornerà ad avere un significato per molti e soprattutto per le nuove generazioni”.
“Di questo - concludeva l’ex segretario generale della Cgil - è giusto ringraziare molti: il presidente Napolitano, il capo del governo, i segretari dei partiti, i movimenti antimafia, tanti uomini e donne di cultura, tanti amministratori, tanti giornali, a partire da l’Unità (ndr. è proprio l’Unità a lanciare nella primavera del 2012 l’appello per funerali di stato in occasione della inumazione dei resti mortali di Placido Rizzotto). Ma il ringraziamento più forte deve andare alla figura della madre di Placido Rizzotto, alla sua forza morale, alla tenacia con cui fino alla fine chiese verità e giustizia. Oggi avrebbe trovato finalmente una ragione di speranza”.
Ma “attenzione - scriveva nel novembre 2017 Emanuele Macaluso - la mafia c’è ancora anche se in Sicilia ha ricevuto seri colpi. Può tornare ad avere un ruolo importante se la politica resta spappolata e se qualcuno pensa di usarla per diventare a sua volta forte”. “Parlate della mafia - raccomandava Paolo Borsellino - Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene”. E noi non smetteremo di farlo. Con la consapevolezza di servire una causa grande, una causa giusta. Una causa alla quale abbiamo pagato, in prima persona, un prezzo altissimo.