Le dinamiche demografiche registrano nel nostro Paese, più che nel resto d’Europa, una tendenza al decremento e all’invecchiamento della popolazione che da congiunturale è diventata un elemento strutturale della società. I dati a nostra disposizione ne danno piena conferma: i nati in Italia nel 2021 per la prima volta sono scesi sotto la soglia dei 400 mila, il rapporto anziani-bambini si attesta a 5 a 1 (era di 1 a 1 nel 1971).  

Senza contare che, secondo le stime della fondazione Ismu, il 1° gennaio 2021 ha visto per il secondo anno consecutivo un calo del numero di “stranieri” residenti Italia, principalmente in virtù della flessione degli ingressi a cui si aggiunge, anche tra gli immigrati, il crollo delle nascite. Nonostante le nascite rimangano più dei decessi in valore assoluto, il vantaggio delle prime sui secondi – il cosiddetto saldo naturale positivo – si è ridotto e lo ha fatto più velocemente di quello degli italiani.

Dal 2016 a oggi sono stati persi 406.397 alunni

L’immigrazione in sé non basta più, e molto probabilmente non potrà bastare in futuro, a controbilanciare i bassi tassi di natalità delle giovani coppie italiane.  E non è stata la pandemia a rappresentare un cambiamento epocale, perché già prima del 2020 in Italia i due aspetti si erano incrociati: l’incremento dei migranti era stato inferiore rispetto ad altri Stati europei, la denatalità più accentuata.

Il fenomeno incide chiaramente su diversi settori della vita, con ripercussioni in campo economico, sociale, culturale e ambientale. Evidenti e pesanti sono le conseguenze sulla scuola, dove l’onda lunga del calo demografico, non sufficientemente compensato da nuove iscrizioni di alunni con cittadinanza non italiana, sta portando a un numero progressivamente in diminuzione di studenti. 

Si parla di cifre allarmanti: le 130 mila iscrizioni in meno alle classi prime dei diversi ordini e gradi per l’a.s. 2022/2023 rispetto al 2021/2022 si sommano al calo complessivo di oltre 400 mila alunni registrati nei cinque anni precedenti. Nei prossimi anni il calo è destinato ad accentuarsi: si può stimare che l’Italia nel 2030 avrà un milione e 300 mila studenti in meno.

 

La diminuzione della popolazione, e soprattutto l’aumento degli squilibri tra generazioni, rappresentano un pericolo ancora più grande della recessione per un Paese che voglia tornare a crescere in campo economico e politico. Non per niente, la sfida demografica è una delle priorità dell’agenda dell’Unione europea, insieme alla questione climatica e alla transizione digitale.  Per questo il dibattito deve riguardare prioritariamente i rimedi possibili e necessari per affrontare il fenomeno nelle sue molteplici interconnessioni. 

Servono interventi strutturali e organici a favore delle famiglie, dai supporti economici legati alla presenza di figli, al rafforzamento del sistema dei congedi di maternità e genitoriali, all’ampliamento dell’offerta di servizi socio-educativi di qualità e accessibili. Serve una equilibrata politica di governo dei flussi migratori in entrata legati al lavoro oltre che alla protezione internazionale e ricongiungimento familiare, a condizione che si voglia promuovere un'elevata qualità della vita attraverso un piano regolatore di convivenza e solidarietà sociale e civile.

Servono, più in generale, politiche del lavoro per contrastare povertà e precarietà e, soprattutto, vista la stretta correlazione tra l’avvento della maternità e il rischio di disoccupazione femminile, è tempo di un cambio di paradigma che superi il tema della conciliazione famiglia-lavoro come questione che riguarda esclusivamente le donne. 

Ma, ben sapendo che gli effetti potranno essere percepiti solo nel lungo periodo, è altrettanto urgente prevedere e programmare i cambiamenti nel breve e medio termine, a partire dalla scuola.  Il Paese si trova di fronte una grande opportunità per rilanciare l’investimento in istruzione e per riqualificare il sistema formativo, primo settore pubblico coinvolto appunto nella flessione demografica. 

Ci troviamo a un punto di svolta per le politiche scolastiche: la crisi demografica può diventare l’alibi di nuovi tagli, portando con sé un ulteriore arretramento per quanto riguarda i livelli di istruzione e conseguenze sul piano economico, sociale, democratico o diventare occasione di un confronto politico culturale per ridefinire complessivamente le scelte in materia di pubblica istruzione.

Occorre subito prospettare soluzioni come l’allungamento dei tempi della didattica e la diminuzione della popolazione delle classi, la valorizzazione di modelli organizzativi di qualità e l’implementazione degli organici, l’innovazione dei processi di formazione e di reclutamento degli insegnanti.

Più in generale, occorre ripensare il sistema nazionale di istruzione in una funzione strategica per lo sviluppo e il futuro del Paese, in rapporto al livello generale di cultura, nella prospettiva di rendere esigibile il diritto all’istruzione e alla formazione per tutto l’arco della vita, dall’accesso ai servizi educativi per l’infanzia all’obbligo scolastico da 3 a 18 anni e dalla sua declinazione attraverso un curricolo unitario fino alla creazione di un vero sistema di formazione permanente, risollevando il Paese dalla sua tristemente ultima posizione nel panorama europeo in termini di spesa pubblica e investimenti efficaci nel comparto dell’istruzione, dell’università e della ricerca. 

Al contrario, l’attuale Governo prospetta nuovi tagli per la scuola nei prossimi anni. Lo si legge nel testo del Documento di economia e finanza 2022 (Def) in cui la spesa per la scuola, tra il 2022 e il 2025 viene ulteriormente ridotta di mezzo punto di Pil; un disinvestimento giustificato, secondo una devastante logica ragionieristica, come un semplice “razionamento” dovuto al calo demografico

Una scelta che dimostra assenza di visione strategica e di coraggio politico da parte di chi non sa e non vuole cogliere l’opportunità legata alle previsioni sulla riduzione della popolazione scolastica negli anni futuri e, nel contempo, decide un aumento delle spese militari pari al 2% del Pil. Un Paese che dà più valore alle armi che alla sua scuola è un Paese senza futuro, incapace di cogliere le sfide del cambiamento e destinato al tracollo.

Manuela Calza, segretaria nazionale Flc Cgil