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La pandemia da Covid-19 suo malgrado ha rilanciato l’importanza del ruolo della scienza e della ricerca scientifica. Mai come prima si era profuso un tale impegno per arrivare alla produzione di vaccini con una tempistica così rapida (un anno circa), e questo grazie ai massicci investimenti pubblici che l’Europa e le altre potenze globali hanno riversato sui colossi mondiali delle industrie farmaceutiche (con conseguenti lauti guadagni per queste, piuttosto che per la salute pubblica).
Sulla pandemia la ricerca ha svolto un ruolo fondamentale non solo nel campo medico sanitario – per tutto ciò che ad essa è connesso in termini di cure e strumenti per combatterla – ma anche per la grande mole di dati e meta-dati messi sotto osservazione dagli scienziati per le analisi statistiche economiche e sociali rispetto a ciò che sta accadendo. Mai come in questo periodo, inoltre, si sono visti virologi, immunologi, fisici, statistici e scienziati di tutto il mondo al centro dell’attenzione, interrogati sulle cause e i rimedi per uscire dalla crisi ambientale di cui il Covid-19 altro non è che un aspetto.
Questo, tuttavia, non ci ha risparmiato purtroppo i tentativi di mettere in discussione la scienza per poter continuare a raccontare frottole sullo stato delle cose, come fanno i negazionisti, convinti che si possa depauperare la Terra senza limiti, continuando a deforestare, estrarre, sfruttare. Alla fine la scienza sembra aver prevalso ed è grazie a politici più accorti se si è continuato a dare ascolto agli scienziati, nonostante le critiche di quanti avrebbero voluto sempre e comunque la preminenza del profitto sul diritto alla salute.
Il governo Conte, che per primo in Europa ha affrontato la pandemia, ha saputo ascoltare la voce della scienza, riconoscendone il ruolo e individuandone uno degli assi su cui costruire l’agenda del futuro; e riuscendo anche a portare la battaglia decisiva in Europa contro la logica dei vincoli di bilancio e per l’orizzonte del Next Generation Eu, con 209 mld di euro da destinare all’Italia per il rilancio del sistema Paese, puntando sulla sostenibilità ambientale, sulle giovani generazioni, inclusione e riduzione dei divari sociali. Ed è proprio sul come spendere questi miliardi che si è aperta la crisi che ha portato al governo Draghi, con il sostegno di quasi tutte le forze politiche presenti in Parlamento e uno spostamento deciso a destra l’asse della sua azione.
Ora, tornando alla ricerca, l’Italia non può perdere l’occasione del Next Generation Eu per invertire un trend che ci ha visto arretrare decisamente in termini di risorse destinate al settore, sia per le infrastrutture sia per gli addetti. I dati ci dicono infatti che negli ultimi 25 anni si è smesso di sostenere la ricerca e con essa quella di base. Nonostante gli obiettivi di portare gli investimenti in R&S dal 2% del Pil al tendenziale 3% come richiesto dalla strategia di Lisbona prima e Europa 2020 poi, siamo ancora ad un misero 1,4% nel 2018, mentre gli altri paesi europei, Francia (oltre il 2%) e Germania (oltre il 3%) in testa, nonostante la crisi del 2008, hanno continuato ad investire in questo settore e più in generale nella conoscenza, lasciandoli fuori dai tagli del debito sovrano. Il nostro arretramento è da addebitare anche alla scarsa propensione all’innovazione del sistema produttivo e il basso contributo alla ricerca da parte del settore industriale.
Mai come in questo momento abbiamo dunque l’occasione per invertire un trend ultraventennale, perché, come detto poc’anzi, nonostante i pessimi livelli di investimenti, continua ad essere molto importante il ruolo dei ricercatori italiani sulla scena globale. Lo dimostra l’ultima pubblicazione dei dati sull'assegnazione dei Consolidator Grant per il 2020 da parte dell’European Research Council. Ebbene, i ricercatori di nazionalità italiana, risultati terzi lo scorso 2019 per quantità di fondi assegnati, nel 2020 si classificano primi su 39 nazionalità partecipanti con 47 progetti: a seguire tedeschi (45), francesi (27) e britannici (24). Una gran bella notizia per il Paese se non fosse che dei 47 progetti vinti solo 17 verranno sviluppati in Italia. Diversa la dinamica negli altri paesi: dei 327 progetti totali 50 saranno svolti in Germania, cinque in più di quelli vinti dai ricercatori tedeschi, 50 nel Regno Unito (26 in più), 34 in Francia (7 in più).
Se si va a guardare dove saranno svolti questi progetti, l’Italia risulta essere agli ultimi posti in Europa, segno di una evidente debolezza strutturale dei luoghi dove si fa la ricerca. Sempre più i nostri ricercatori scelgono di andare a sviluppare all’estero le loro idee, mentre non è possibile affrontare la competizione internazionale sul terreno delle conoscenze e delle competenze scientifiche senza predisporre un piano chiaro e complessivo di investimenti. La priorità è l’immissione di risorse stabili nella infrastruttura di base della ricerca che migliori anche le condizioni di lavoro, mentre la precarietà diffusa, le basse retribuzioni e le scarse prospettive professionali segnano un gap tra chi svolge attività di ricerca nel nostro paese e chi lo fa nel resto d’Europa, alimentando un’emorragia costante di conoscenze e competenze preziosissime, che finiscono per contribuire alla crescita di altri Paesi.
Senza risorse stabili al sistema di base della ricerca pubblica, le misure estemporanee rischiano di essere inefficaci. La sfida del Next Generation Eu non può essere mancata: solo cogliendo l’importanza del momento, in cui è evidente la centralità della ricerca scientifica per un diverso modello di sviluppo, sarà possibile destinare le risorse necessarie per rilanciare la ricerca italiana, anche sotto il profilo delle infrastrutture e del numero degli addetti.
Gabriele Giannini è funzionario della Flc Cgil nazionale