Figli di un dio minore. Lo sono in vita e continuano a esserlo dopo morti. Perché la fine delle loro esistenze spesso porta a fondo con sé tutti i perché e i percome, guadagnando a stento una breve sui giornali o un annuncio di pochi secondi nei tg, tra un servizio e l’altro. Sono quelli che muoiono sui barchini, nelle rotte della speranza che si trasforma in dramma. Sono i migranti, carne da campagna elettorale e poco altro. Niente a che vedere con la tragica fine della Bayesian, di cui ci è stato raccontato tutto in poche ore. Componenti dell’equipaggio, dinamica, possibili cause, storie di quelle vite privilegiate finite, ironia della sorte, in fondo al mare come tanti fantasmi in fuga dall’Africa e dall’Asia.

Ci siamo interrogati, anche in questa redazione, sui motivi che hanno spinto molti grandi media nazionali a scandagliare minuto per minuto, fin dal primo, questa notizia arrivata da Palermo mentre metà del mondo si godeva le vacanze, laddove spesso non considerano notizia la morte di donne, uomini e bambini in fuga dalle guerre e dalla povertà. E abbiamo chiesto aiuto a Vittorio Alessandro, ammiraglio in congedo della Guardia costiera.

“Come succede a ogni marinaio ho partecipato alla tragedia di Porticello, perché persone che muoiono tragicamente in mare comunque lasciano un senso di dolore in chi ha lavorato in mare. Anche a me – ci ha raccontato al telefono da Porto Empedocle, dove vive – è capitato di fare alcune riflessioni sul fatto che spesso il nostro mondo sembra insensibile alle notizie di naufragi. Riflessioni amare perché siamo circondati da naufragi, io vivendo a porto Empedocle considero il mio mare quello d’Africa, dove più spesso si verificano queste tragedie. Emergono allora confronti e considerazioni”.

L’ammiraglio ricorda come l’impegno dello Stato e della Guardia Costiera nel salvare vite in mare sia enorme. “Il confronto attiene ad altri aspetti, al fatto che di questo naufragio di Palermo si è parlato giustamente in modo forte, esteso, insistente, mentre degli altri naufragi non si parla granché”.

Con il pensiero va all’ultima grande strage, avvenuta nel giugno scorso a Gioiosa Ionica, in provincia di Reggio Calabria: “di quel naufragio sono ancora poco chiare le cause e persino sull’approdo delle salme si sa poco. Sono state portate a terra di notte per sfuggire agli sguardi dei cronisti, non ci sono state cerimonie di saluto. 70 persone tra le quali 26 bambini sono morte, e in tanti hanno atteso due giorni alla deriva. E non sappiamo perché, come mai sia successo. Nel caso di Porticello, invece, la percezione generale è che siamo già in ritardo sull’inchiesta, per sapere come mai sia avvenuto, ma naturalmente non è così”.

Due pesi e due misure. Una distanza eticamente inaccettabile e insopportabile. “Su quei naufragi ‘poveri’ altro aspetto riguarda la dinamica dei soccorsi. Succede che le imbarcazioni in pericolo, quando non abbiano ancora raggiunto le acque Sar italiane, vengano spesso lasciate al proprio destino, scaricate alla responsabilità di altre autorità, che siano quelle greche, maltesi, tunisine o, peggio ancora, libiche. Che intervengono male e poco, quella libica con le armi addirittura, e portano a terra – sappiamo dove – chi si salva, con operazioni frettolose. E se qualcuno cade in mare lì viene lasciato”.

“I confronti tra questo naufragio ricco, ricchissimo, e tutti gli altri sono obbligatori, dovuti, perché i migranti non arrivano su imbarcazioni da 30 milioni di euro, ma le vite sono tutte uguali. E persino sulle distanze non ci dovrebbero essere differenze, che la tragedia avvenga in porto o in acque internazionali. Perché in mare non ci sono o non dovrebbero esserci acque di nessuno”.

Dove nasce questa frattura che non rispetta neanche la morte? “Il mio timore è che si sia instaurata una perversa sovrapposizione tra il fastidio che questa informazione procura al potere costituito – non solo l’attuale governo – per un verso, per un altro la disattenzione e una comunicazione che a tratti diventa ubriacante: quando ci sono i bambini riversi sulla battigia scatta la pietas, la morbosità, la curiosità, fino a saturare l’attenzione, la sensibilità. E le due cose insieme producono indifferenza, molte redazioni sono attente a non esagerare, c’è un’opinione pubblica che quasi non ne può più”.

Come si esce da questo circolo perverso? “Ci dovrebbe essere un guizzo di cultura e di sapienza – ci ha detto alla fine della nostra chiacchierata l’ammiraglio Vittorio Alessandro –, dovrebbero risaltare le vite, le storie, il contatto con la realtà del nostro quotidiano popolato anche di immigrati. I governi hanno deciso che la politica migratoria si fa in mare e nei porti piuttosto che in terra, nell’accoglienza, nell’inserire e integrare le persone. In realtà la politica migratoria non si fa in mare, e tutto quello che succede richiederebbe una risposta”.