Tuta blu, scarponi, elmetto giallo e torcia. La sua divisa da lavoro, Urbano ha continuato a indossarla tutti i giorni, anche dopo la pensione. Nel tempo, è diventata una divisa d’ordinanza, perché questo ex minatore originario di Fano è diventato una vera e propria istituzione in quello che una volta chiamavano Pays Noir, cuore pulsante di un bacino carbonifero ormai abbandonato.
Fondatore dell’Associazione Minatori Vittime del Bois du Cazier, nata nel 1985, ha scelto come missione della sua vita quella di ricordare i compagni morti nella tragedia. Il bisogno di non dimenticare, il senso di colpa e di responsabilità che hanno tutti i sopravvissuti. “Per un giorno mi son salvato” è la frase che ha ripetuto, negli anni, a tutti i visitatori di quella ex miniera poi diventata un museo delle fatiche. Urbano era arrivato dalle Marche in Belgio a diciotto anni. L’8 agosto del 1956 si preparava all’inizio del suo nuovo lavoro: il giorno dopo sarebbe dovuto scendere per la prima volta sotto terra. Solo per questo rimase vivo, e non ha mai smesso di commuoversi nel ricordarlo.
Dopo la pensione e con la nascita del museo, patrimonio dell’Unesco, ha continuato tutti i giorni a prendere gli ascensori di legno, che portavano i minatori nella pancia della miniera e che ora ci portano i turisti. A Bois du Cazier volevano buttare giù tutto e farci un supermercato, ma Urbano e gli altri italiani si sono opposti. Sono riusciti a trasformarlo in un sito patrimonio dell’umanità. “Il vostro sacrificio non è stato vano” si legge su una targa all’ingresso. Pensò queste parole con cura e le fece scrivere lui stesso, da semi-analfabeta, come si definì. I nomi messi nero su bianco, le facce impresse nella memoria e sulle vecchie foto in bianco e nero, che Urbano ha sempre portato nel taschino della tuta blu. In ogni volto, la storia di un compagno perso, quel giorno o dopo, a causa della silicosi, la malattia dei minatori. “Io sono quello più forte a destra, gli altri son morti”. Dodici nazionalità diverse e altrettanti idiomi parlati tutti i giorni a 1135 metri sotto terra. Per l’azienda non contava da dove venivi, contavano le braccia che avevi.
Minatori senza un nome ma con un numero, da uno a mille. Quello di Urbano era il 709. Ognuno aveva una medaglietta: finché restava al suo posto, era il segno che il proprietario stava ancora sotto. Di mattina tanto carbone, nel pomeriggio si metteva in sicurezza la miniera e durante il turno di notte si preparavano le attrezzature per il giorno dopo. Prima di scendere, si entrava nella sala dei penduti, così chiamata per le tute pulite appese sul soffitto, tirate giù dagli operai che lasciavano quelle sporche. Poi giù, stipati nei piccoli ascensori con pale, picconi e lampade, divenute più leggere e maneggevoli solo dopo la tragedia. Prima pesavano diversi chili e bisognava tenersele addosso, anche per questa ragione molti non riuscirono a mettersi in salvo.
Chi ha conosciuto Urbano non può non chiedersi dove abbia trovato il coraggio di continuare a fare il minatore dopo quello che accadde a Marcinelle. La sua risposta, una volta, fu che non era facile, ma gli piaceva tanto. “Non mi son perso di coraggio, nonostante tutti quei morti”. A trentadue anni, ne aveva già quattordici di miniera alle spalle e così ha proseguito, come tanti italiani, per garantire alla sua famiglia una vita felice. Ai suoi figli non ha mai fatto pesare la sua scelta, ma ne ha trasmesso lo sconfinato valore.
"Uomini di Carbone" è il titolo dell'audiodoc realizzato da Maria Antonia Fama e Roberta Lisi