PHOTO
La mattina del 13 marzo 1987, nel porto di Ravenna, 13 operai, molti dei quali giovanissimi, muoiono soffocati nella stiva della nave gasiera Elisabetta Montanari. A scatenare l’evento è un incendio, scoppiato in maniera involontaria, le cui esalazioni causano il decesso per asfissia dei lavoratori impegnati in lavori di manutenzione e pulizia, avvenuta al termine di una lunga agonia.
Le indagini riveleranno la disapplicazione delle più elementari misure di sicurezza, dalla disponibilità di estintori e presidi antincendio alla previsione di vie di fuga in caso di pericolo. E mostreranno la disorganizzazione del cantiere, di proprietà della Mecnavi Srl, il reclutamento di manodopera attraverso il caporalato, l’assunzione di lavoratori “in nero”.
A distanza di un mese Antonio Pizzinato, allora segretario generale Cgil, così commemorerà le vittime: “Dopo i giorni dell’indignazione e dello sgomento, mentre riaffermiamo tutta la nostra solidarietà alle famiglie delle vittime di Ravenna, dobbiamo oggi affrontare con raziocinio e con coraggio i problemi che derivano da quella tragedia per i lavoratori, per il movimento sindacale, per cambiare questa società così ingiusta che al bisogno del lavoro spesso risponde imponendo condizioni che non rispettano la vita stessa dell’uomo”.
“Forse non sarebbe accaduto se quei giovani fossero stati aiutati a dire di no” aveva detto il giorno precedente il settantacinquenne arcivescovo di Ravenna Ersilio Tonini al convegno nazionale indetto da Cgil, Cisl, Uil sui “problemi della condizione di lavoro e della sicurezza”, tenutosi a Bologna il 10 aprile 1987.
Un convegno aperto da un’ampia e puntuale relazione di Alfiero Grandi, allora segretario generale Cgil Emilia Romagna, che sottolineerà come “questo di Ravenna non è stato un incidente sul lavoro, ma la conseguenza tragica per 13 lavoratori dell’assenza del rispetto delle più elementari norme di tutela e sicurezza e dei più elementari diritti sindacali”. Parole attuali sulle quali, mai come oggi, ci siamo trovati e ci troviamo costretti a riflettere.
Tra gennaio e luglio 2020 le denunce di infortunio sul lavoro sono state 288.873. Le morti 716, +19,5% rispetto al 2019. Nei primi sette mesi del 2020, rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, sono calati gli infortuni mortali in itinere (cioè durante il percorso dal lavoro), che sono scesi da 167 a 113, con un -32,3%, ma sono aumentati da 432 a 603, un aumento del 39,6%, quelli in occasione del lavoro. Un elenco infinito, pauroso, di persone, non di numeri. Un elenco di mamme, papà, fratelli, sorelle, zie, nonni, mogli, mariti. Un elenco di storie, di famiglie, di vuoti lasciati, di solitudini.
“Non bisogna aver paura di usare parole forti perché questa è la realtà. I morti, gli infortuni sul lavoro, le malattie professionali sono in drammatico aumento, parliamo ormai di una vera e propria strage”, diceva qualche tempo fa il segretario generale della Cgil Maurizio Landini aggiungendo: “Sono i numeri purtroppo a dirlo. Se guardiamo i dati ci accorgiamo che dal 2009 ci sono stati 17 mila morti sul lavoro o mentre si recavano o tornavano dal posto di lavoro; 1.133 solo nel 2018 e 600 mila infortuni. Secondo l’Inail nei primi sette mesi del 2019, sono state 599 le vittime, in lieve aumento (2%) rispetto allo stesso periodo del 2018. (…) Gli incidenti mortali sono aumentati del 6% rispetto all’anno scorso, con una media di oltre 3 morti ogni giorno. Numeri che fanno indignare, si continua a morire come si moriva quaranta-cinquanta anni fa. Ha ragione il Presidente Mattarella quando afferma che la sicurezza sul lavoro è una priorità sociale e non si possono accettare passivamente le tragedie che si ripetono. È ora di agire. Prevenzione è la parola d’ordine. C’è sicuramente un problema di formazione che va fatta a chi comincia a lavorare, periodicamente a chi già lavora, a chi opera in appalto. Ma va svolta anche agli imprenditori, visto che il tessuto produttivo italiano è fatto di tante piccole e medie imprese. Ci vuole poi una specie di patente a punti per le imprese. Un documento che indichi quanti infortuni hanno avuto, cos’è successo, quale affidabilità hanno sulla sicurezza, che diventi elemento di valutazione nell’attribuzione di appalti. Serve, infine, rafforzare le funzioni ispettive e di prevenzione negli ispettorati e nelle Asl, il che significa assunzioni e risorse”.
“Le chiamano morti bianche - scriveva Marco Bazzoni, operaio metalmeccanico e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza - come il lenzuolo che copre le coscienze dei colpevoli. Le chiamano morti bianche, ma sono tragedie inaccettabili per una paese che si definisce civile. Le chiamano morti bianche, ma in realtà sono nere, non solo perché ogni morte è nera ma perché spesso, quasi sempre, le vittime non risultano nemmeno nei libri paga dei loro padroni: padroni della loro vita. E della loro morte. Le chiamano morti bianche, un eufemismo che andrebbe abolito, perché è un insulto ai familiari e alle vittime del lavoro. Le chiamano morti bianche, pochi ne parlano, ma sono tragedie sottostimate nei dati ufficiali. Le chiamano morti bianche, ma non lo sono mai”.
Sono morti rosse, come il sangue versato, morti nere come la nostra rabbia, la nostra - di tutti! - vergogna.