Dopo una lunga maratona anche notturna, durata complessivamente 15 ore, la Camera dei deputati ha dato il via libera definitivo al ddl sull'autonomia differenziata. Il provvedimento ha ottenuto 172 sì, 99 no e una astensione. La misura, già passata al Senato, è quindi diventata legge.

Cosa cambia

La riforma attua la possibilità di riconoscere livelli diversi di autonomia differenziata alle diverse Regioni italiane a statuto ordinario e speciale e alla Province autonome di Trento e Bolzano. In 11 articoli, il provvedimento definisce le procedure legislative e amministrative per l'applicazione del terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione.

Le materie nelle quali Regioni e Province autonome potranno chiedere un livello di autonomia differenziata rispetto alle altre sono ben 23. Tra queste segnaliamo la tutela della salute, l’istruzione, lo sport, l’ambiente, l’energia, i trasporti, la cultura e il commercio estero, cui si aggiungono 14 materie definite dai Livelli essenziali di prestazione (Lep).

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Stato e singole Regioni avranno cinque mesi di tempo dalla richiesta dell’ente istituzionale per arrivare a un accordo. Le intese potranno durare fino a dieci anni e poi essere rinnovate. Potranno essere interrotte prima della scadenza da Stato o Regione con preavviso di almeno 12 mesi.

Come detto sopra, il riconoscimento di una o più “forme di autonomia” è subordinata alla determinazione dei Lep, ossia criteri che determinano il livello di servizio minimo che deve essere garantito in modo uniforme sull'intero territorio nazionale. La determinazione dei costi e dei fabbisogni standard, e quindi dei Lep, avviene sulla base di una ricognizione della spesa storica dello Stato in ogni Regione nell'ultimo triennio. Il governo nazionale dovrà varare, entro 24 mesi dall'entrata in vigore della legge approvata oggi, uno o più decreti legislativi per determinare livelli e importi dei Lep.

Il commento della Cgil

“Una controriforma - dichiara il segretario confederale Christian Ferrari - che non danneggia solo il Mezzogiorno, ma che fa male a tutto il Paese, dividendolo e rendendolo ininfluente anche a livello europeo”.

Per il dirigente sindacale “a pagarne le conseguenze saranno i lavoratori, i pensionati, le fasce popolari a ogni latitudine, con la messa in discussione del contratto collettivo nazionale di lavoro, con un ulteriore indebolimento del welfare universalistico, con l'impossibilità di mettere in campo qualsivoglia politica industriale e di sviluppo che torni a farci crescere e a creare occupazione di qualità, con la regionalizzazione perfino dell'istruzione pubblica, un pilastro dell'identità culturale nazionale”.