PHOTO
Meno nascite, meno iscrizioni a scuola, e c’è ben poco da dire: la matematica non è un’opinione. Ma questo non dovrebbe automaticamente determinare meno investimenti nel mondo dell’istruzione pubblica, come sembra pronto a fare il governo nel prossimo triennio. Anche perché ormai da tempo, da troppo tempo, nella scuola italiana quando va bene non si investe, quando va male si sottraggono risorse per destinarle ad altre cosiddette priorità. E le conseguenze di queste scelte, una forma di abbandono di carattere istituzionale reiterato anno per anno, si vedono e si fanno sentire, pesano e presentano il conto.
La crisi demografica diviene dunque lo scenario ideale per continuare su questa linea, per tagliare ancora, invece di sollecitare discussioni e proposte che abbiano come obiettivo il miglioramento delle attuali e future condizioni scolastiche, da un punto di vista non solo strutturale ma anche strettamente didattico.
A tutto questo viene spontaneo aggiungere almeno un altro elemento, in qualche modo connesso alla perdita di studenti e studentesse: si tratta di un altro tipo di abbandono, non quello istituzionale ma quello fisico di alunni e alunne, nelle nostre classi motivato da varianti che mutano di luogo in luogo, di caso in caso, restando tra le principali emergenze da affrontare, come confermano implacabilmente i numeri confrontati con il resto d’Europa.
I due temi sono tra loro legati perché chi non viene più a scuola lo fa anche perché nella scuola non trova quello che vorrebbe trovare, perché non c’è un’accoglienza adeguata, perché molte aule non sono adeguate, perché la didattica non funziona come dovrebbe soprattutto in termini di continuità, con professori che vanno e vengono, restano un paio di settimane e poi non li vedi più, vittime di un precariato senza confini che si ripercuote su giovani insegnanti che non possono costruirsi un futuro, e su giovani generazioni che non riescono ad avere in una o più materie il punto di riferimento di cui necessitano e avrebbero diritto, nel nome del diritto allo studio.
E allora bisognerebbe lavorare su questo, e per farlo occorrono mezzi, occorrono risorse, occorre una progettualità programmata e finalizzata verso determinati obiettivi; la realtà invece racconta che nel complesso ci si affida alla buona volontà e alle capacità specifiche di qualche singolo, che si fa carico dei nodi da sciogliere ogni mattina nel plesso in cui opera.
Pensiamo ai dirigenti scolastici, oramai ritenuti efficienti e valorosi quando riescono a ottenere finanziamenti da qualche ente privato per ristrutturare i locali interni, o la palestra, il giardino: sei un bravo preside se trovi i soldi da qualche altra parte, mentre se ti limiti a utilizzare nella maniera dovuta i pochi euro messi a disposizione dal ministero, di solito appena sufficienti per l’ordinaria amministrazione, fai soltanto parte del tuo dovere, senza infamia e senza lode.
Ci si dovrebbe chiedere quale formazione sociale possa essere garantita agli studenti in questo modo, visto che anche di quella dovremmo occuparci; quale senso civico, dato che l’educazione civica almeno in teoria è tornata di moda, se i primi a lanciare segnali in altre direzioni sono proprio le istituzioni; quale sostegno e supporto al corpo docente, in generale all’intero comparto lavorativo scolastico, dopo oltre due anni vissuti in emergenza pandemica, portata avanti tra mille difficoltà, anche a causa di scelte ministeriali che hanno lasciato in più di una circostanza a dir poco perplessi.
Alla crisi internazionale dei subprime, arrivata dagli Usa in Europa tra il 2007 e il 2008, Paesi come Francia e Germania hanno risposto con investimenti corposi nel mondo della cultura, dell’istruzione in particolare. Noi restiamo tra gli ultimi, pur non avendo eguali al mondo per storia e tradizione: e pur essendo stati, almeno fino a vent’anni fa, all’avanguardia nell’organizzazione dell’istruzione pubblica.
L’irrefrenabile calo delle iscrizioni, a pensarci bene, può dipendere anche da questo.