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Proprio oggi, 13 ottobre si insedia il nuovo Parlamento e prende il via la XIX legislatura italiana, quella che vede assegnata la maggioranza parlamentare allo schieramento che ha il ricevuto meno del 30 per cento dei consensi popolari, visto il fortissimo astensionismo che ha caratterizzato il voto del 25 settembre. Christian Ferrari, segretario nazionale della Cgil, ragiona con Collettiva sulla necessità che la Costituzione venga attuata e non modificata, tanto più nel segno ipotizzato dal centro destra, ricordando che la Carta è patrimonio di tutte e tutti e può essere parzialmente emendata solo “tutti inseme”.
“È bella, ma ha oltre settant'anni e deve essere cambiata”: così ha esordito l'onorevole Lollobrigida parlando della Costituzione italiana subito dopo le elezioni. È davvero così invecchiata da aver bisogno di essere modificata?
Al contrario, la Costituzione italiana denota una straordinaria attualità. Se penso, ad esempio, agli articoli che riguardano il lavoro e i diritti sociali, la Carta è tuttora in grado di guidarci nell’affrontare la grave situazione di crisi sociale che stiamo attraversando. Per la Cgil, il vero tema non è la modifica della Costituzione, ma la sua applicazione concreta e integrale. Penso, ad esempio, all’articolo 36 che stabilisce, per il lavoratore, il diritto a una retribuzione proporzionata e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa. Questo principio è violato puntualmente e da anni, in particolare per i giovani e per le donne. Solo tornando a rispettarlo potremo archiviare il tempo della precarietà e della svalorizzazione del lavoro. E potrei fare molti altri esempi. La Costituzione è tutt’altro che vecchia, superata, è più moderna ed evoluta di molte delle leggi che vengono approvate oggi. Come sindacato ci battiamo per rilanciarne i contenuti socialmente più rilevanti, per far tornare il lavoro come fondamento reale della nostra Repubblica. È questo l’appello che lanciamo al nuovo Parlamento.
Siamo in Europa: ci siamo salvati dalla pandemia grazie ai vaccini, distribuiti in maniera coordinata dall'Unione, e grazie a New Generation Eu, che ha portato al nostro Paese quasi 200 miliardi. Fratelli d'Italia ha annunciato che vorrebbe approvare una norma che limita la sovranità del diritto comunitario su quello nazionale. Abbiamo bisogno di più o meno sovranità nazionale, di più o meno Europa?
Il tornante storico che stiamo attraversando – tra guerra, crisi ambientale e grandi trasformazioni legate alla conversione ecologica e alla transizione digitale – impone la necessità di ridisegnare il nostro modello sociale e di sviluppo. Se ci rinchiudessimo nella sola dimensione nazionale, se coltivassimo l’isolazionismo, non saremmo in grado di affrontare e vincere nessuna di queste sfide strategiche. La questione, semmai, è come si rilancia un processo di integrazione europea che punti decisamente all'unità politica del nostro continente. È questa l’indispensabile premessa per costruire un'autonomia strategica che – oggi più che mai – è indispensabile per giocare un ruolo da protagonisti nel mondo. Un mondo che noi vogliamo pacifico e multipolare, e non nuovamente diviso in blocchi contrapposti e armati gli uni contro gli altri.
Quale il ruolo dell'Unione europea?
Una Ue coesa e autonoma può rappresentare quella potenza dialogante e riequilibratrice in grado di favorire questo percorso. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è cadere nella tentazione sovranista e nazionalistica che – oltre ad essere miope e antistorica – è assolutamente velleitaria. D’altra parte, sul ruolo dell’Italia e sui suoi rapporti con il mondo, l’art. 11 della nostra Carta continua a rappresentare una straordinaria “bussola” che non dobbiamo mai perdere di vista. Va quindi rilanciata con determinazione una battaglia politica nel contesto europeo per non tornare indietro rispetto ai passi avanti decisivi compiuti durante la crisi sanitaria, con il Next Generation Eu, con la messa in discussione dei dogmi dell'austerità e del libero mercato, con la sospensione del Patto di stabilità, con gli Eurobond e la strategia del Green New Deal. Guai se ci rassegnassimo a ridurre questa rinnovata solidarietà a livello continentale in una parentesi pandemica da chiudere il prima possibile. Solo portando a pieno compimento quel processo virtuoso ci metteremo nelle condizioni di affrontare l’emergenza drammatica che abbiamo di fronte, determinata dalla crisi energetica, dall’impennata inflattiva, dalla crisi geopolitica, dalla guerra che torna nel cuore dell’Europa. Vanno alimentati lo spirito e la logica del Next Generation Eu e del Pnrr: debito, risorse, progetti comuni per delineare un futuro di sviluppo, di progresso e di pace per tutti i popoli del continente e per il mondo.
E veniamo a quelli che sono diventati due veri e propri cavalli di battaglia durante la campagna elettorale. Il primo è il presidenzialismo: nella legislatura che si è appena conclusa, Fratelli d'Italia aveva già presentato un disegno di legge in tal senso. La Cgil è favorevole al cambiamento della forma di governo?
No, è l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno. Vale in generale e vale a maggior ragione nel tempo complicato che viviamo. C’è un equivoco di fondo: si attribuisce alla forma di governo la crisi della politica e della stessa democrazia, certificata dall’altissimo tasso di astensione al voto del 25 settembre. Abbiamo raggiunto il punto più basso, dopo una lunga parabola di progressiva riduzione della partecipazione elettorale e, più in generale, alla vita politica nel nostro Paese. Il punto è questo: a essere in crisi non è la governabilità, ma la rappresentanza. E una crisi di questa portata non si risolve con operazioni d'ingegneria istituzionale, chiamando le persone a scegliere ogni cinque anni il leader di turno, il presidente del Consiglio o della Repubblica a seconda delle diverse proposte.
Cosa serve?
Occorre lavorare per riattivare tutti gli strumenti e i meccanismi di partecipazione popolare, ridando forza alle istituzioni rappresentative, a cominciare dal Parlamento, e ai partiti politici. Solo attraverso partiti veri, strutturati e di popolo le persone possono concorrere a determinare l'indirizzo politico locale, nazionale ed europeo.
Nella vulgata comune, però, è proprio il Parlamento il luogo delle inefficienze e delle lentezze a cui contrapporre un esecutivo forte in grado di decidere...
Non è così. Già da molto tempo il problema italiano non è certo quello di un Parlamento inefficace, che ostacola o compromette le dinamiche politico-legislative o gli equilibri istituzionali. Il Parlamento ha perso da tempo la sua centralità e il governo – attraverso la decretazione d’urgenza e il ricorso alla fiducia – ha di fatto espropriato la stessa funzione legislativa delle Camere, comprimendo oltremodo il ruolo della sede naturale dell’espressione della sovranità e della rappresentanza popolare. Aggiungiamo il problema di una legge elettorale che impedisce ai cittadini di scegliere i parlamentari e che deforma, in senso maggioritario, l’esito delle urne e abbiamo trovato buona parte delle ragioni della disaffezione popolare.
Come invertire la rotta?
Anche in questo caso, dovremmo tornare alla forma e allo spirito originario della nostra Costituzione, restituendo centralità al Parlamento e ricostruendo in quella sede, dove dovrebbero essere rappresentati tutti i cittadini, una vera dialettica politica e un rinnovato rapporto con il Paese e la società. Questo è ciò di cui abbiamo bisogno. Aggiungo un ulteriore riflessione, non di merito ma di metodo: nessuna maggioranza dovrebbe arrogarsi il diritto di modificare unilateralmente la Costituzione. La Costituzione repubblicana è il più importante “bene comune” di cui disponiamo, è la base del patto di cittadinanza che ci lega, è un patrimonio che appartiene a tutti i cittadini, a tutte le forze politiche e sociali. A maggior ragione non dovrebbe farlo, pur avendo indubbiamente vinto le elezioni, chi rappresenta solo il 28 per cento, in termini assoluti, degli elettori italiani.
Infine, c'è un'ulteriore proposta di modifica della Costituzione, sul tappeto da tempo: l’autonomia differenziata.
Prima la crisi pandemica, poi quella economica e sociale hanno fatto esplodere le diseguaglianze sociali e i divari territoriali. La vera priorità è lavorare e spingere per riunificare il Paese, sulla base di un principio dirimente: non può dipendere dalla regione, dal comune o dalla famiglia in cui si nasce l’esigibilità dei diritti di cittadinanza e la fruibilità dei servizi fondamentali sanciti dalla Costituzione. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno, dunque, è riaprire la strada verso l’autonomia differenziata, senza aver approvato i Lep (Livelli Essenziali delle Prestazioni), senza aver fissato i principi fondamentali, senza aver previsto strumenti di perequazione.
Quindi la Cgil è contraria?
Siamo contrari a ogni scelta che comporti un’ulteriore frammentazione dell’unitarietà dei diritti civili e sociali dei cittadini, a partire dall’unità del sistema di istruzione. Dobbiamo invece ripartire da provvedimenti straordinari volti a rimuovere le diseguaglianze esistenti e a definire una cornice unitaria di principi e prestazioni non derogabili, da garantire in modo uniforme ed effettivo su tutto il territorio nazionale, in maniera tale da assicurare benessere ed equità sociale per tutti i cittadini.
E dal punto di vista economico?
Anche dal punto di vista economico è innanzitutto interesse della parte più produttiva del Paese favorire una crescita del nostro Meridione, senza la quale nessun rilancio della domanda interna sarà possibile, nessuna crescita economica strutturale sarà realizzabile. Su questo punto vale lo stesso ragionamento che facciamo sull’artificiosa contrapposizione tra sovranità nazionale e dimensione europea: dal tornante storico che abbiamo di fronte, con le sfide epocali che porta con sé, si può uscire solo insieme, come Paese unito, non sortirne ciascuna regione per proprio conto. Non è questo il tempo delle piccole patrie.