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Ricorderemo la primavera del 2020 come una delle più strane delle nostre vite. Ciascuno la ricorderà dal suo punto di osservazione, dallo spicchio di finestra che gli è toccata in sorte per lasciar cercare luce agli occhi e aria alla mente, una fuga da questi gusci a cui abbiamo dovuto chiedere di non schiudersi – non ancora, ancora per un po’. La mia finestra sul mondo-fuori è la scuola. La scuola continua ad essere il mio “attraverso lo specchio” ancora adesso, quando l’unica cosa che devo attraversare ogni mattina è lo stretto corridoio che separa la cucina dal soggiorno. Qualche minuto e sono arrivata in classe. Clicco un tasto sul computer e inizia la mia lezione.
Nei pochi secondi in cui la mia faccia galleggia a pixel sgranati fissandomi di rimando prima che arrivino gli studenti – blop, collegamento n° 1; ariblop, collegamento n° 2, altre facce sgranate si stagliano dai riquadri – in quella manciata di attimi il cuore accelera, il cervello sprimaccia le idee raccolte in precedenza, gli argomenti e le parole si addossano nel lobo frontale e io sono di nuovo davanti a quella porta, la porta dell’aula, con la mano sulla maniglia di plastica e i libri sotto il braccio. Ma l’incanto dura poco, e la tana del Bianconiglio è già realtà. Siamo dentro.
La chiamano didattica a distanza - ne abbiamo imparato presto il nome - e i contorni ce li siamo fatti andar bene per tempi migliori, ce li siamo cuciti sulle dita e sugli occhi, sperando di trovare il senso dai sensi del toccare e del vedere, anche virtuale. Eppure di questa distanza a volte non resta che il nome: rase al suolo, azzerate, tutte le distanze. Siamo entrati nelle camere da letto dei nostri alunni, vicini alle lenzuola sfatte, sui tavoli di soggiorno ai cui bordi orbitano satelliti di genitori, fratelli, animali domestici, disordini quotidiani. Siamo entrati nella sfera della domenica e del sabato, nei riposi che non ci tangevano e ora ci tangono. Tutto ora si tocca, diviene tangenziale, nei tempi che si sono allungati e annullati, nell’inconsistenza del privato.
È caduta, tra noi e i nostri alunni, la quarta parete. Siamo più umani, i nostri alunni ora lo sanno. Eravamo umani anche prima, ma lo eravamo dentro il palinsesto dell’anno scolastico, nello spazio connotato delle mura di classe, e tutti coesistevamo in quel luogo, uniti da quel momento, in quella relazione. Ora ci guardiamo nella distanza e ci vediamo più vicini, o forse diversi, attraverso lo specchio, ogni giorno.
Come torneremo? Cambiati, certo ritorneremo cambiati. Il filo sottile su cui ci muoviamo è il pericolo della distanza. La trappola che essa ci pone, e in cui la tentazione di cadere può essere come un’ubriacatura. L’esercizio necessario di equilibrio è un’opera di discernimento sanguinosa, una catasta di vetri infranti in cui infilare le mani per ritrovare l’immagine e il segno.
Ci sono limiti oggettivi che la distanza fisica e sociale di un nucleo educativo così fortemente connotato come un gruppo classe pone al processo di apprendimento. Già intrinsecamente mancano i paradigmi necessari: un gruppo classe è definito anche dalla quantità, nonché dalla qualità, del tempo trascorso insieme a significare uno spazio, informandolo di vita e agire. Ma lo spettro che si agita alle spalle della nostra immagine riflessa è la netta sensazione che questa distanza contingente altro non sia che manifestazione fortuita di una distanza congenita, che già ci separava e non lo sapevamo.
In questa condizione tutto si amplifica, lo vediamo nelle piccolezze quotidiane. I nostri difetti, i nostri umori, le malinconie, i vizi, le solitudini: tutto è acuito e si fa spazio nel paradosso di una stasi e di un silenzio a cui non eravamo abituati. E così allo stesso modo forse sta accadendo alla nostra scuola, e dalla crepa apertasi nel terremoto della distanza fuoriesce tutto ciò che in questi anni abbiamo sedimentato. Le nostre scorie, l’inattitudine calcificata in alcuni punti, che intacca tutti e tutti ne portiamo il peso, alunni e insegnanti. Tuttavia, dalle crepe può fuoriuscire anche la luce, è stato Leonard Cohen a insegnarci la meraviglia del lasciarsi spezzare. La scuola è viva: è il terreno su cui tutti sediamo, la stoffa che porta cuciti i nostri nomi. E in queste fratture dolorose, in questi terremoti e in questi momenti, le meraviglie succedono.
Succede che sono un'insegnante piccola e minuscola rispetto alla quantità e alla qualità del valore richiesto, sempre e in particolare adesso, lo so. Succede che mi consumo la testa e il cuore e il fiato perché non sempre so trovare le chiavi giuste, i pensieri giusti, le strategie giuste. Vivo di tentativi, sperimento e a volte mi arrendo, faccio le cose piccole che potrebbero fare tutti. Succede che chiudiamo una videolezione in diretta e gli alunni più in difficoltà mi mandano le foto degli appunti che hanno preso, ci tengono a chiedermi se vanno bene, se sono stati precisi, a dire scusi prof, forse la scrittura non si capisce.
Succede che un’alunna, due alunne, tre alunne, scrivano con mani veloci su fogli sparsi che senza scuola, o meglio distanti dalla scuola, hanno imparato a vedersi per quello che erano prima. “Molte volte mi affaccio alla finestra e vedo la bellezza che prima mi era difficile vedere. Dopo questa distanza, quando potrò tornare a scuola, spero di non cambiare”. E succede così, che io sono piccola ma loro sono grandi, e sono pronti a dirci con testa cuore e mani che loro la scuola la vogliono, a loro serve, la tengono stretta con le dita anche mentre sembra stia scivolando via.
Serafina Le Fosse è la vice preside della secondaria di primo grado dell'IC Melissa Bassi di Tor Bella Monaca, Roma