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Sono giovani, non studiano, non si formano, non lavorano. Su di loro si producono indagini e ricerche, si snocciolano dati e statistiche, per loro si stanziano risorse e finanziamenti. Eppure, nonostante gli interventi fatti e i discorsi spesi, non si riesce a migliorarne la condizione né a ridurne il numero. Sul fenomeno dei ragazzi e delle ragazze cosiddetti Neet, dall’acronimo inglese Neither in Employment nor in Education or Training, l’Italia detiene il primato europeo: sono circa 2.100.000 persone comprese tra i 15 e i 29 anni, il 22,4 per cento nel terzo trimestre del 2021 secondo l’Eurostat, praticamente un giovane su tre, a fronte di una media Ue del 12,7.
Fenomeno costante
Una quota che è rimasta costante negli ultimi dieci anni, pur tra oscillazioni, per toccare il picco del 24 per cento in piena pandemia. Per avere un termine di paragone, basti dire che in Grecia la percentuale dei Neet è del 18,7, in Bulgaria del 18,1, in Spagna del 17,3, in Romania del 16,6. Se poi ci si concentra sulle fasce di età successive, oltre i 30 anni, l’incidenza dei giovani che non studiano e non lavorano tra i 20 e i 34 anni è superiore di circa 12 punti rispetto all’Europa, 29,4 contro 17,6 (dati Eurostat 2020), ponendo il nostro Paese nella posizione peggiore tra gli Stati dell’Unione. Questa media nasconde comunque notevoli differenze territoriali, con le regioni meridionali a farla da padrone: in Sicilia la stima di giovani Neet è del 37,5 per cento, in Calabria del 34,6, in Campania del 34,5. Al vertice opposto della classifica, Trentino Alto Adige, Friuli Venezia Giulia e Veneto.
"Le istituzioni non si sono dimenticati di loro: i giovani e i Neet in particolare sono tenuti in considerazione – afferma Anna Teselli, dell’Area coesione della Cgil nazionale -. Quello che manca è un coordinamento che definisca una strategia complessiva. Anche quando le risorse vengono spese, proprio perché non c’è una direzione precisa né un’organizzazione, i problemi restano. Prendiamo il Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza: è insoddisfacente sulla proposta di nuovi ed efficaci investimenti per i giovani, soprattutto per quelli con maggiori difficoltà. Nel Piano il tema viene considerato una delle priorità trasversali, ma è una dichiarazione di principio. Il risultato è una strategia disarticolata e frammentata”.
Azioni senza coordinamento
La stessa Missione 5, inclusione e coesione, destina 600 milioni di euro soprattutto alle aree più marginali e periferiche, prevedendo investimenti specifici sulle politiche di formazione e di occupabilità dei ragazzi con misure specifiche in favore dei giovani e dei Neet. “Saranno potenziati il sistema duale (un modello di apprendimento basato sull'alternarsi di momenti formativi alla pratica, ndr) e l’istituto dell’apprendistato – riprende Teselli -, ma senza un meccanismo attuativo preciso, con il rischio che alla fine le risorse vadano indirizzate alle regioni più forti, Lombardia in testa, trascurando invece quelle che ne avrebbero più bisogno. Si tratta comunque di briciole, risorse che non sono sufficienti a far fronte alle necessità”.
La teoria secondo cui i giovani sono “dimenticati” dalla politica e dalle istituzioni, che nessuno li vuole, quindi, è fuorviante. Ancora risuonano le parole del presidente della Repubblica uscente Sergio Mattarella che di recente ha detto: “Giovani, prendetevi i futuro”. E quelle del presidente del consiglio Mario Draghi: “Dopo anni in cui l’Italia si è spesso dimenticata delle sue ragazze e dei suoi ragazzi, sappiate che le vostre aspirazioni, le vostre attese, sono al centro dell’azione del governo”. Perciò, largo ai giovani, anche se questo non è un Paese per loro, perché le azioni messe in campo non riescono a intercettarli, istruirli, formarli, professionalizzarli, invogliarli. Il fenomeno dei Neet infatti è complesso e intreccia tre dimensioni: la scuola, il mercato del lavoro e l’ambito della formazione. Proprio per questo, andrebbe affrontato in modo articolato e con interventi integrati. Se poi si aggiunge che tra i Neet italiani è molto elevata la quota di inattivi, di chi cioè non è proprio alla ricerca di un lavoro, con bassi titoli di studio, ci si ritrova con un segmento di popolazione giovanile fortemente esposto al rischio di marginalizzazione socio-lavorativa.
La fuga dei cervelli
Partiamo dalla scuola. “Il primo tema è quello degli investimenti in istruzione – afferma Anna Maria Santoro, responsabile politiche dell'istruzione Cgil -. Cosa ci dicono i dati? Che rispetto al resto dell’Europa in Italia si investe in istruzione molto di meno, circa un punto e mezzo di Pil. E la pandemia non poteva che confermare e aggravare questa situazione. Ci vorrà del tempo per colmare il deficit cognitivo causato dalla chiusura delle scuole prima e dalla didattica a distanza poi, che se non altro ha consentito di mantenere la relazione formativa. Ma il fenomeno dei Neet è complesso, non può riguardare solo i ragazzi e l’istruzione, ma tutta la società, se centinaia di migliaia di giovani rinunciano a diplomarsi, a laurearsi e a formarsi. A questo si aggiunga il fenomeno della fuga di cervelli, di altre centinaia di migliaia di diplomati e laureati che se ne sono andati e se ne vanno tuttora fuori dall’Italia perché il nostro Paese non offre e non ha offerto prospettive di vita e di lavoro. Siamo di fronte ad una vera e propria crisi culturale, una crescita continua di povertà educativa”.
Stiamo parlando dello spopolamento di intere aree per effetto della migrazione giovanile soprattutto all’estero: in oltre 10 anni i giovani italiani di 25-34 anni che si sono trasferiti hanno superato quelli che sono tornati. Sono 259mila, di cui circa il 36 per cento con la sola licenza media e quasi il 30 per cento laureati. Restiamo poi tra i Paesi europei con il tasso più elevato di dispersi, con trend in calo, ma con forti squilibri.
“Dopo la tragedia della pandemia, è arrivato il Pnrr e ci si è accorti che le scuole sono vecchie, non sono connesse, che in intere zone del Paese, al Sud in particolare, mancano gli asili nido, che il tempo prolungato e il tempo pieno non ci sono nelle aree maggiormente depresse – prosegue Santoro -. E mentre i numeri ci dicono che ci vuole più scuola, il governo ha deciso di sperimentare il liceo di quattro anni, cioè si pensa di tagliare il tempo scuola anziché allungarlo. Venti anni di tagli al personale scolastico sono una ferita ancora aperta nel sistema italiano dell’istruzione. Per poter competere con gli altri Paesi dovremmo investire almeno 19-20 miliardi di euro, per trattenere di più i ragazzi nella scuola allungando il tempo scuola e innalzare l’obbligo a 18 anni, offrendogli alternative formative e culturali che li motivino a riprendere gli studi e aspirare a una partecipazione attiva e consapevole alla vita da cittadini. E poi creazione di lavoro di qualità per i giovani: non è possibile che l'ingresso nel mercato del lavoro avvenga attraverso stage sottopagati dove la sicurezza non è garantita. La morte di Lorenzo dovrebbe far riflettere. Dobbiamo rivedere complessivamente il sistema della ex alternanza e investire ancor di più in scuola e sicurezza. I Neet sono lo specchio di un tessuto economico-sociale che non vuole diplomati e laureati, ma manodopera che si può attivare a comando e a basso prezzo”.
Early School Leavers
D’altra parte, il 13,1 per cento dei 18-24enni italiani ha soltanto la licenza media (Eurostat, 2020), risulta cioè disperso secondo la definizione europea degli Early School Leavers, una quota ancora lontana dall’obiettivo fissato dalla Strategia Europa 2020 del 10 per cento. Secondo l’Istat “i giovani che abbandonano gli studi avendo al massimo raggiunto la licenza media sono stati 543.000 nel 2020 (il 46,6 per cento nel Mezzogiorno): si tratta di un aggregato di popolazione particolarmente vulnerabile in termini di inserimento nel mercato del lavoro e di prospettive di inclusione sociale, non solo in giovane età, ma anche soggetto a ripercussioni negative sulle condizioni economiche future”. Questo dimostra che sul versante delle transizioni all’interno del sistema educativo le difficoltà sono diffuse e persistenti, ma sono altrettante le problematicità legate ai momenti di passaggio dalla scuola e dalla formazione professionale al mondo del lavoro.
Che cosa è stato fatto finora? “Garanzia giovani è il più grande programma di attivazione nazionale rivolto ai giovani: sono stati spesi tantissimi soldi ma la curva dei Neet nel frattempo è cresciuta o comunque non è diminuita – riprende Teselli -. Poco da dire, non ha funzionato. C’è stato un utilizzo eccessivo dei tirocini e delle misure di incentivazione a discapito delle altre tipologie di interventi e in particolare dell’apprendistato, che invece per la Cgil resta lo strumento principale di inserimento nel mercato del lavoro dei giovani”. A differenza dei tirocini extracurriculari, un’esperienza formativa di sei mesi con un para-contratto e una certificazione delle competenze che non viene mai rilasciata, e che tra l’altro non porta all’assunzione se non in rari casi, l’apprendistato è uno strumento che punta a formare le persone integralmente, attraverso un percorso di apprendimento che collega il sapere teorico a quello legato al fare ed è un contratto che offre maggiori tutele a un giovane lavoratore.
Si raggiungono soprattutto i forti
“Anche le agevolazioni sono inefficaci ai fini della stabilizzazione dei rapporti di lavoro, che tendono a concludersi con l’esaurirsi delle misure di decontribuzione – conclude Teselli -. Stiamo parlando comunque di misure che sono arrivate per lo più ai giovani più forti, e non ai deboli, a quelli che avevano già strumenti, che ce l’avrebbero fatta in ogni caso. Non possiamo limitarci ai soli tirocini che, come le medicine, vengono somministrati a tutti allo stesso modo. Dobbiamo ragionare. E qui torniamo al Pnrr: cosa fa per i giovani non è chiaro. È trasversale a tutte le Missioni e le componenti ma non viene fornita una stima complessiva di quante risorse vadano a questo target. Per fare un esempio, non viene definito quale vincolo c’è rispetto all’assunzione di giovani e donne da parte di chi risponde ai bandi. E su quali tipologie di contratto ci saranno condizionalità: si parla di contratti di formazione intendendo tirocini, di apprendistato, altri tipi?”.
La Cgil ha chiesto in tutte le sedi, anche con l’appoggio della Commissione europea, un tavolo Inter-istituzionale di coordinamento di tutti i soggetti che si occupano i giovani, a livello nazionale e territoriale, con il coinvolgimento attivo del partenariato economico e sociale, per una revisione integrale di Garanzia giovani e della strategia programmatoria sul tema, per mettere a sistema tutte le risorse disponibili, a cominciare naturalmente dal Pnrr e dai Fondi europei. Qualunque altro provvedimento rischia di continuare ad alimentare interventi a pioggia a favore dei giovani, che come dimostrano i dati degli ultimi anni non raggiungono gli effetti desiderati, cioè la riduzione dei Neet, della disoccupazione e della dispersione scolastica. Provvedimenti proprio come il “Piano Neet”, il recentissimo decreto congiunto firmato dai ministri del Lavoro e per le Politiche giovanili che contiene le “le linee programmatiche del governo volte a promuovere strategie efficaci di individuazione, coinvolgimento e attivazione dei giovani in condizione Neet”. Decreto che sembra calato dall’alto, per il quale non c’è stato alcun confronto con le parti sociali.