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Tredici anni fa, il 6 novembre del 2007 moriva a Milano Enzo Biagi. Ad annunciare per primo il decesso sarà il medico Giorgio Massarotti: “Per incarico della famiglia - dirà - e con estremo dolore, annuncio che il dottor Biagi si è spento alle 8 di questa mattina con serenità”. “Si è addormentato sereno - aggiungerà la figlia Bice - le ultime parole che ha pronunciato sono state ‘ho tanto bisogno di voi’. Ci ha fatto dormire qualche ora, a me e a mia sorella, e ci ha aspettate. Siamo stati insieme”. “Ha sul petto il distintivo di Giustizia e libertà - preciserà la figlia Carla - perché era una delle cose più care di cui parlava di più, ossia dei partigiani”. Perché probabilmente non tutti lo sanno, ma Enzo Biagi fu partigiano e resistente (sarà proprio lui ad annunciare la Liberazione di Bologna dai microfoni della radio della quinta Armata).
“Scompare con Enzo Biagi una grande voce di libertà - diceva il giorno della sua morte l’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano - Egli ha rappresentato uno straordinario punto di riferimento ideale e morale nel complesso mondo del giornalismo e della televisione, presidiandone e garantendone l’autonomia e il pluralismo. Il suo profondo attaccamento - sempre orgogliosamente rivendicato - alla tradizione dell’antifascismo e della Resistenza, lo aveva condotto a schierarsi in ogni momento in difesa dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana. L’amore per l’Italia e la conoscenza della storia nazionale avevano ispirato la sua opera di scrittore e le sue indagini nel vivo della realtà italiana. A Enzo Biagi uomo di genuina ispirazione socialista e cristiana rendo riconoscente omaggio a nome del Paese, esprimendo con commosso ricordo personale la più affettuosa vicinanza e solidarietà ai suoi familiari in questo momento di dolore e di rimpianto”.
La sua salma (esposta per due giorni nella camera ardente dell’ospedale milanese dov’era stato ricoverato e qui visitata da centinaia di personalità e semplici cittadini), sarà stata tumulata, accanto a quella della moglie, nel cimitero di Lizzano in Belvedere, a Pianaccio. Sulla giacca il distintivo dei partigiani di Giustizia e Libertà, nell’aria il canto di Bella ciao.
Il giovane Enzo era fresco di matrimonio quando si era rifugiato sulle montagne per aderire alla Resistenza. Giudicato troppo gracile per combattere, il suo comandante pensò che il partigiano Biagi avrebbe servito meglio la lotta antifascista facendo il suo mestiere: così gli venne affidata la stesura del giornale Patrioti, del quale era in pratica l’unico redattore. Del giornale uscirono tre numeri, fino a quando i nazisti non individuarono la tipografia e la distrussero. Appena tre numeri, eppure Biagi considererà sempre quell’anno di clandestinità, quei quattordici mesi da partigiano, come il momento più importante della sua esistenza, alla base della sua etica, nel lavoro come nella vita.
Hanno scritto le figlie all’inizio del libro I quattordici mesi - La mia Resistenza, curato da Loris Mazzetti e pubblicato da Rizzoli nella collana Saggi italiani: “Tra i ricordi più vivi che abbiamo di nostro padre, soprattutto degli ultimi anni, c’è una frase che ricorreva più spesso nei pomeriggi passati insieme: 'Ci sono due categorie di uomini a me più care', ci diceva, 'gli operai e i partigiani'. Così sintetizzava orgogliosamente, in fondo, l’ambiente dal quale veniva, e la scelta che aveva cambiato la sua giovinezza e dato un segno alla sua storia”.
“Questa è la storia di una piccola brigata di montagna - scriveva col suo stile sobrio il giornalista - che conobbe la fame e i rastrellamenti, le estenuanti guardie del fronte e le lunghe notti sotto la pioggia, con le cime dei faggi per riparo, che ebbe sei morti e una medaglia d’oro, che procurò tanti guai ai tedeschi, e che vive cara nel ricordo di molti italiani. È la storia della brigata Giustizia e Libertà, di cento ragazzi e un capitano che tornarono soldati, perché bisognava far così. Non avevano caserma né rancio, né armi né scarpe, ma a loro bastava un pezzo di pane. Dormivano tra gli abeti e i fucili andarono a cercarseli. Questa è la storia della nostra GL, un grande nome che i piccoli uomini della montagna hanno rispettato, un grande nome che si pronuncia col cuore, e che allora faceva sognare giorni migliori, un mondo migliore”.
“Se n’è andato Enzo Biagi, maestro di giornalismo e partigiano di Giustizia e Libertà - annunciava quel giorno il periodico dell’Anpi Patria indipendente - Ci ha lasciato a distanza di cinque anni dal tristemente noto 'editto bulgaro', pronunciato il 18 aprile 2002 a Sofia da Silvio Berlusconi, che lo accusava di aver fatto 'un uso criminoso e personale della televisione pubblica', in associazione con il giornalista Michele Santoro ed il comico Daniele Luttazzi. Tutto per un’intervista a Roberto Benigni, andata in onda nella sua trasmissione Il fatto, proprio alla vigilia delle elezioni che avrebbero portato il Cavaliere a Palazzo Chigi per la seconda volta. Biagi, col distintivo della sua formazione partigiana sul petto, riposerà nel cimitero di Pianaccio, suo borgo natale in provincia di Bologna. Ai funerali, celebrati in una piccola chiesa arrampicata sull’Appennino, erano presenti i massimi rappresentanti delle istituzioni e della politica, insieme ai direttori dei giornali per i quali Biagi aveva lavorato e a molti altri colleghi che hanno voluto rendergli omaggio. Ma soprattutto, per salutarlo un’ultima volta, sono accorsi tanti cittadini e tanti anziani partigiani che al termine della funzione religiosa lo hanno accompagnato intonando con un coro la canzone Bella ciao. Come hanno ricordato l’amico e conterraneo cardinale Ersilio Tonini e l’amico partigiano 'Checco' Berti Arnoaldi Veli, 'Enzo Biagi ha sempre rivendicato nel suo lavoro e in tutta la sua vita i valori della Resistenza, gli ideali di una scelta compiuta quando aveva 23 anni, sostenuta fino all’ultimo istante con coerenza e dignità'”.
Al suo rientro in televisione dopo l’editto bulgaro il giornalista tornava finalmente a dire:
Buonasera, scusate se sono un po’ commosso e magari si vede. C’è stato qualche inconveniente tecnico e l’intervallo è durato cinque anni. C’eravamo persi di vista, c’era attorno a me la nebbia della politica e qualcuno ci soffiava dentro… Vi confesso che sono molto felice di ritrovarvi. Dall’ultima volta che ci siamo visti, sono accadute molte cose. Per fortuna, qualcuna è anche finita.
Ci sono dei momenti in cui si ha il dovere di non piacere a qualcuno, e noi non siamo piaciuti.
Vi dico subito che il nostro programma, RT, si ispira ai fatti che accadono ogni giorno. Cercheremo di raccontare la vita di tutti. Personalmente sono convinto che quello che manca agli italiani è la speranza. Ricominciamo.
Posso fare soltanto una promessa. Mia madre, terza elementare, mi diceva: mai dire bugie. Ho sempre cercato e cercherò di darle ancora retta.
Rotocalco Televisivo inizia in un’occasione che mi pare del tutto speciale: fra tre giorni è il 25 aprile. Per gli italiani è una data che è parte ormai essenziale della loro storia: hanno acquistato il diritto della parola. Possiamo dire, voi ed io, tutto quello che pensiamo.
In questi giorni si ricorda la Resistenza. Mi permetto di dirvi che non è solo storia passata: anche oggi c’è sempre da resistere a qualcosa, a promesse, a tentazioni, a corse al potere. La Resistenza non è mai finita: per tanti Italiani il mese ha una settimana in più, per alcuni, poi, di Italie ce ne sono due o tre, non solo il nord e il sud, ma anche quella di chi è troppo ricco e di chi è troppo povero. Ma per noi di Italia ce n’è una sola: questa.
La mia generazione ha vissuto e sofferto la guerra del fronte, quella dei bombardamenti, quella delle stragi, ma c’è un’altra guerra meno evidente, meno clamorosa, oso dire meno spettacolare, che si deve combattere ogni giorno contro le ingiustizie, le prepotenze, le lusinghe e gli abusi del potere, di tutti i poteri. Il mio pensiero va ai miei colleghi, ai miei compagni di lavoro caduti sui tanti fronti di guerra, e anche nelle nostre città, vittime di agguati e di crudeltà, che non dovrebbero esistere mai, tanto meno in questo che forse impropriamente è detto tempo di pace. Avevano solo voglia di raccontare.
Vent’anni fa Primo Levi poneva fine al dramma della sua vita, segnata dalle persecuzioni e dal dolore. Ha raccontato al mondo le persecuzioni e il dolore di chi ha conosciuto i lager. E il senso di colpa chi è sopravvissuto.
Resistere non vuol dire soltanto cercare di opporsi ai rastrellamenti, alle persecuzioni, alle sopraffazioni. Ma comportarsi ogni giorno con il rispetto degli altri.