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Alessandro Genovesi, nel suo articolo pubblicato su Collettiva, ricostruisce il clima, il momento storico nel quale il 23 di marzo di vent'anni fa si svolse quella grandissima manifestazione di Roma contro il governo Berlusconi che voleva cancellare l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. L'articolo 18, come noto, contiene la difesa delle persone che lavorano in aziende che superano la soglia dei 15 dipendenti da discriminazioni di varia natura. Nei decenni precedenti alla nascita dello Statuto, si erano registrate discriminazioni di carattere politico e sindacale di ogni genere. Il governo di allora, spinto anche da Confindustria, voleva modificare l'insieme delle norme che proteggono e proteggevano le persone che lavorano, cominciando da quello che era apparso fin dall'inizio, oltre che un obiettivo materiale, anche un obiettivo simbolico: togliere la difesa dalle discriminazioni.
La descrizione che fa Alessandro del quadro politico di quegli anni ormai lontani è del tutto condivisibile. C'erano tanti movimenti e condizioni nuove nel Paese. C'era una reazione nella società a delle scelte che il governo di centrodestra tentava di fare, come era capitato prima con lo smantellamento di una parte del sistema previdenziale, anche quello fermato per poi dare vita a una trattativa che produsse una riforma condivisibile. In quell'anno poi si era arrivati alla questione che sta alla base di tutti i rapporti di lavoro, ovvero i diritti delle persone che sono attivamente impegnate nei luoghi di lavoro.
Nel suo articolo Alessandro indica anche alcuni momenti di difficoltà e di crisi successivi alla manifestazione. Io credo che bene abbia fatto a riprendere gli argomenti più difficili, o almeno quelli che erano diventati più difficili nei mesi successivi. Vale la pena di ricordare che qualche settimana prima della manifestazione, la Cgil aveva consegnato al Parlamento italiano un'ipotesi di legge iniziativa popolare con quasi sei milioni di firme. Era un testo scritto dai migliori giuslavoristi italiani e aveva come obiettivo quello di rimodulare ed estendere, soprattutto estendere, le protezioni, le tutele dello Statuto dei lavoratori.
Quella splendida legge del ‘70 aveva dei limiti dati dal cambiamento che si era determinato nel mondo del lavoro. Lavori nuovi, attività prima non esistenti e anche modifiche dentro attività storiche e antiche che, in virtù dell'uso della tecnologia e del cambiamento dei prodotti, mutavano natura. Basterebbe, a questo proposito, ricordare che nello stesso periodo la Cgil diede vita a una nuova organizzazione sindacale di categoria, un po’ particolare: la chiamammo Nidil, nuove identità del lavoro, perché era il nuovo che andava guardato con l'attenzione che meritava e ricondotto a protezioni che al momento della sua nascita, del suo sviluppo, ovviamente non aveva. Bene, quel disegno di legge non venne mai discusso dal Parlamento, venne accantonato, ignorato.
Io credo che la Cgil, come dice anche Alessandro, commise lì un errore: quello di non insistere verso la politica, di non sollecitare i partiti a discutere di quel merito, concentrando la sua attenzione su un'ipotetica estensione dell'articolo 18 alle aziende inferiore ai 15 dipendenti. Un'ipotesi che non aveva un contenuto formale sul piano della necessità e che comunque distolse dall'attenzione vera, che non era quella di usare uno strumento l’articolo 18, ma introdurre tante modifiche che fossero in grado di garantire il rispetto dei diritti individuali e collettivi a persone che o li avevano persi, o non li avevano mai avuti perché il loro lavoro era appena nato.
Ecco, io credo che quel tema oggi sia ancora presente. E per molti versi addirittura si sia accentuato: basti pensare, per fare qualche esempio a quello che capita nell'agricoltura dove - prevalentemente ma non solo - gli immigrati vengono sfruttati per raccogliere verdura e frutta senza che vi siano delle protezioni formali di particolare efficacia. Sì, qualche tentativo di introdurre delle protezioni con delle leggi però troppo vaghe e soprattutto non adeguatamente applicate. Oppure, basti pensare a quello che capita nella logistica e nelle attività commerciali: i riders e tutte le varie forme di distribuzione di ciò che viene prodotto non più attraverso i canali tradizionali, ma con soggetti nuovi che sono spesso ragazzi, ma non solo, che non hanno alternativa e che nello svolgimento del loro lavoro non hanno le protezioni necessarie.
Oppure, si può pensare ancora a ciò che capita in attività di servizio che sono particolarmente esposte e che registrano anche un numero consistente di infortuni, spesso mortali, alle persone che lavorano. Da ultimo, si può sempre immaginare come esempio a ciò che sta capitando nella parte del lavoro “alta”, dove la tecnologia e la conoscenza sono gli elementi prevalenti: ci sono attività nuove, influenzate e condizionate dalle tecnologie, dall'informatica, che non sono adeguatamente riconosciute e protette perché lì ci sono forme di controllo che vengono impropriamente esercitate su chi lavora e che dovrebbero essere invece escluse.
Insomma, il tema dell'estensione dello Statuto dei diritti dei lavoratori è di straordinaria attualità. Lo era in quel momento, messo in discussione da parte del governo, aggredendo il più significativo sul piano simbolico degli articoli, il numero 18: lo è a maggior ragione oggi, dopo che siamo passati da esperienze del tutto negative, prive di ragione e assolutamente negative per le persone interessate, come è stato il Jobs Act.
Spero che le forze politiche si rendano conto di come sia importante la tutela dei diritti individuali e collettivi delle persone che lavorano. È un pilastro di qualsiasi ipotesi di crescita e di sviluppo che abbia il consenso degli interessati. La crescita e lo sviluppo non devono produrre il peggioramento delle condizioni di chi lavora, di chi è la base di quel processo. Devono riconoscere il valore di quel lavoro e devono dare il rispetto che merita.
In parallelo c'è il trascinamento del secondo problema, reso evidente anche dai dati che ha pubblicato di recente il Cnel: il riconoscimento della rappresentanza. Il Cnel dice che siamo prossimi a mille contratti collettivi nazionali di lavoro per attività che non sono riconducibili alla dimensione propria che richiede un contratto nazionale di lavoro. Di che cosa si tratta? Di finti contratti di lavoro collettivi. Sono contratti che riducono le condizioni materiali di chi presta attività, riducono i salari, riducono le protezioni, tagliano i diritti. Cioè sono contratti che favoriscono l'idea di una competitività che non è data - come chiedeva Jacques Delor già nel Libro Bianco del 1993 e poi nella Direttiva di Lisbona del 2000 - dalla conoscenza, dalla qualità di quel che si produce, dalla tecnologia per produrlo, dalla conoscenza che fa evolvere di volta in volta queste capacità dell'economia e dei settori produttivi.
Si punta invece a una competitività che è data dalla riduzione dei costi: meno diritti, meno salario, con tutte le conseguenze del caso. Peggiorano le condizioni di vita e di lavoro di milioni di persone, ma allo stesso tempo anche il modello competitivo è sempre più fragile e discutibile, e si separa in ogni caso dai pochi settori, dai pochi segmenti nei quali, invece, la tecnologia viene adeguatamente coltivata. Io credo che queste siano due esigenze che riguardano il mondo del lavoro e che sono fondamentali in una fase nella quale, per la pandemia ancora non terminata, per la terribile e oscena guerra in atto, le condizioni materiali e l'economia dell'Europa e del mondo cambiano in peggio.
Se si vuole modificare il modello di crescita che oggi sia ha a disposizione, perché non esistono più le condizioni di prima, basti pensare all’utilizzo delle materie prime o delle fonti energetiche. O pensare ai diversi rapporti che ci saranno tra le varie parti del mondo. Se si vuole modificare queste condizioni occorre avere soggetti politici istituzionali rappresentativi e forti: penso a un'Europa che riscriva i suoi trattati e li renda vincolanti sulle materie fondamentali, che oggi sono considerate solo marginalmente.
Dall'altra parte bisogna avere la possibilità di coinvolgere in positivo il sistema che produce. Quello che è fatto dalle imprese, dagli strumenti e dai modelli che vengono utilizzati e, soprattutto, è fatto dalle donne e dagli uomini che lavorano: devono essere rispettati, riconosciuti e devono avere per legge il rispetto di questi diritti. Contemporaneamente, ancora per legge, occorre sancire il rispetto delle organizzazioni alle quali lavoratori e lavoratrici affidano il compito di tutelarli in un momento importante della loro vita.
Ecco perché occorre che la politica, a partire dal governo e dalle forze che lo compongono, consideri con attenzione non solo una politica di sviluppo tutta da descrivere e da disegnare, ma anche di introdurre per legge l'estensione di diritti e tutele delle persone coinvolte nelle attività produttive ed economiche, e dall'altra parte di riconoscere per legge chi li rappresenta.