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Nelle prossime settimane il governo presenterà la proposta di legge di bilancio. Quanto sta facendo sul fisco lascia presagire intenzioni tutt’altro che orientate a dare risposte eque e indirizzate all’interesse generale. Con il governo Meloni siamo, infatti, scientemente, per alcune categorie, al fisco à la carte e questo provoca oltre a mancate entrate un corto circuito democratico.
In tale situazione si corre anche il rischio di un conflitto tra contribuenti. Non è una semplice provocazione affermare che se fossero lavoratori dipendenti e pensionati a usufruire di un regime fiscale à la carte, ciò comporterebbe l’automatica cancellazione di diritti universali per il venir meno di risorse indispensabili alla vita di uno Stato di diritto.
Ma uno Stato democratico non si tiene unito se esige senso di responsabilità esclusivamente a una parte di cittadinanza, mentre strizza l'occhio all'altra dandole la possibilità di giocare a sottrarre le risorse dovute. La crisi della democrazia, infatti, inizia dalla violazione del patto tra Stato e cittadino su come si contribuisce equamente al finanziamento del sistema pubblico.
“Tutti i cittadini sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Così recita l’articolo 53 della Costituzione.
Spese pubbliche significano assistenza sanitaria e sociale, cioè medici di base, distretti, ospedali, Rsa, assistenza domiciliare, finanziamento per la non autosufficienza. Significano anche istruzione, investimenti per strade, trasporti, tutela ambientale, ricerca, università, stare in Europa e nel mondo attraverso programmi di sviluppo anche di tipo cooperativo; inoltre sostenere la transizione digitale e l’innovazione facendosi carico della riorganizzazione dell’apparato produttivo, nonché destinare risorse alla generazione urbana per garantire un benessere collettivo diffuso.
Le tasse non sono belle, sono giuste e indispensabili per evitare che ognuno si arrangi di fronte a una malattia; per garantire che di fronte a una difficoltà improvvisa si possa far conto su un sistema pubblico che non ti lascia solo; che “l’operaio possa ambire ad avere il figlio dottore” evitando che la società si blocchi per classi e si disgreghi per corporazioni. L’ascensore sociale deve essere sempre in movimento per tutti, questo può accadere solo in presenza di uno Stato che si faccia carico innanzitutto delle realtà più fragili e sappia valorizzare talento e motivazioni.
Per fare questo occorrono le risorse. Quelle necessarie. Da prelevare in maniera equa secondo la disponibilità reale. Pagare le tasse non può essere un atto di generosità del singolo, ma la responsabilità richiesta alle persone che producono reddito per tenere insieme un Paese.
Si deve essere consapevoli che dopo la critica, la denuncia, l’indignazione su un sistema fiscale che in modo sempre più volgare e arrogante intende premiare i furbi; chi paga le tasse fino all’ultimo euro come avviene per lavoratrici e lavoratori dipendenti, pensionate e pensionati ha diritto a scendere in campo con forza per chiedere un’inversione di queste politiche.
Lavoro dipendente e pensioni si trovano caricato sulle spalle il 90% del gettito Irpef. Mentre rimane la vergogna di un’evasione fiscale sempre vicina ai cento miliardi di euro e di un regime per il lavoro autonomo fatto di condoni, tassazione agevolata e concordati preventivi che minano alla base i principi di equità e progressività.
Il fisco non deve essere amico di nessuno, ma giusto con tutti. E per noi rimane il tema centrale di qualsiasi discussione in tema di diritti universali delle persone. Il mondo del lavoro ha bisogno di risposte inequivoche su precarietà e sicurezza, oltre che di sostegno al rinnovo dei contratti di lavoro ancora aperti.
Per quanto riguarda il sistema previdenziale, dopo il pesante taglio di sette miliardi effettuato per il biennio 2023-2024 dal governo Meloni sul sistema di perequazione colpendo circa un terzo delle pensionate e dei pensionati, ragioni minime di equità, nel quadro sopra descritto, imporrebbero la salvaguardia dell’unico strumento a disposizione – la rivalutazione, appunto – per tutelare il potere d’acquisto di chi ha lavorato per diversi decenni, pagando i contributi, e ora è in pensione.
Lorenzo Mazzoli è segretario nazionale Spi Cgil