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Il 5 luglio 1960 a Licata, in provincia di Agrigento, durante una manifestazione unitaria di braccianti e operai, polizia e carabinieri caricano e sparano contro il corteo guidato dal sindaco Dc Castelli uccidendo Vincenzo Napoli che, si racconta, cercava di difendere un bambino tenuto fermo a un muro e picchiato dai celerini.
I licatesi erano scesi in piazza per protestare contro la cronica mancanza di acqua, oltre che per richiedere condizioni economiche migliori. Una manifestazione operaia e popolare contro il carovita, contro la gravissima crisi economica, per il lavoro, la terra, il pane, contro il governo Tambroni.
“Il 5 luglio - scrive Renzo Del Carria - è la volta dello sciopero generale a Licata (Sicilia). La cittadina è preda della crisi agricola per la distruzione delle culture per il maltempo, della crisi industriale per la chiusura della Montecatini, unica fabbrica della zona, e della crisi del porto, pressoché inattivo. Inoltre era stato soppresso lo scalo ferroviario e negli ultimi mesi avevano emigrato oltre mille abitanti. Lo sciopero è generale: chiusi i negozi, gli uffici, le banche e gli esercizi pubblici. Tambroni fa affluire a Licata un’intera brigata di carabinieri oltre a vari reparti della polizia dalle vicine città. La manifestazione di strada raccoglie tutti i lavoratori della città e si protrae per tutta la giornata. I treni in transito sono bloccati alla stazione da seimila persone sdraiate sui binari. Molte barricate sorgono sulle strade statali che attraversano la cittadina. Iniziano così gli scontri tra polizia e manifestanti. La polizia si serve dei calci dei moschetti, degli elmetti impugnati per i sottogola e di candelotti fumogeni. La folla si difende con i sassi. Presto tutta la cittadina è centro di scontri. Verso le ore 20 la polizia stende un cordone intorno al centro e spara a zero sui lavoratori, causando un morto, cinque feriti gravi e molti feriti leggeri. La folla non scappa e gli scontri proseguono per tutta la notte, mentre viene smantellato dai proletari il ponte di ferro sul fiume che collega la città alla strada statale e un’auto della polizia è data alle fiamme”.
"I mitra crepitarono e poi fu la tragedia", riporterà L’Ora. “La folla dapprima arretro terrorizzata, poi un commerciante inerme fece il gesto di lanciarsi contro le armi puntate dalla polizia. ‘Non lo lasciamo solo!’ Si gridò mentre l’uomo stramazzava al suolo ucciso. Lo sciopero generale, con a capo il sindaco democristiano, era cominciato al grido di ‘Vogliamo il pane’ ”.
“A Licata - dirà Ingrao alla Camera il 7 luglio - vi è stato un morto (…) Vi sono stati i morti perché si è sparato. Voi siete tornati oggi a percorrere l’infausta, tragica strada delle sparatorie, delle uccisioni e del sangue. Siete tornati a ripercorrere la strada degli interventi illegali nelle vertenze del lavoro, forse per proteggere meglio quei profitti del padronato italiano che suscitano lo scandalo perfino dei conservatori degli altri paesi. Le cose (…) che si stanno verificando in Italia denotano un metodo indegno, che disonora il nostro paese e non può essere accettato in una nazione democratica, retta da una Costituzione che riconosce legittimo il comizio, la protesta di massa, la manifestazione di piazza, lo sciopero politico. Si tratta di un metodo indegno per un paese che ha realizzato le sue conquiste democratiche combattendo proprio contro il fascismo. Quelle conquiste non sono soltanto nostre, ma anche vostre”.
“Onorevole Spataro - proseguiva Ingrao - a Licata vi è stato u n morto. Sa da chi era diretto il corteo di Licata? Da un sindaco democristiano. Ecco la realtà. I giornali governativi gridano contro questa unità che si è manifestata a Genova, a Roma e altrove. Ma vi siete posti mai il problema, vi siete mai domandati: come nasce questa unità che si sta sviluppando in un moto così impetuoso, per cui i comunisti, socialisti, socialdemocratici, oggi accantonano una serie di polemiche, di divergenze, o le superano, per ritrovarsi nella lotta, in quel modo come ci siamo ritrovati? Ecco la questione a cui bisogna rispondere Veda, onorevole Spataro: quella unità, vi piaccia o non vi piaccia, non è solo un'unità contro il passato, contro Ia riesumazione del passato, contro l'inserimento del Movimento sociale italiano nella maggioranza governativa che voi avete favorito. No, è qualcos'altro ancora: è l'unità per qualche cosa che monta e sta montando nel paese, ed è la volontà che la Costituzione del nostro paese non sia un pezzo di carta, ma cominci a diventare un a realtà”.
“Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale - aveva già detto Sandro Pertini pochi giorni prima a Genova - spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista. A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza? Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi”.