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Enrico Berlinguer nasce a Sassari il 25 maggio 1922. Suo fratello Giovanni racconterà che Enrico da adolescente coltivava la passione per i libri di filosofia, affermazione confermata da lui stesso in un’intervista del 1980: “Se mi chiede che cosa volevo fare da ragazzo e cioè prima di darmi alla politica, le rispondo il filosofo”.
Nell’ottobre del 1943, appena maggiorenne, si iscrive al Partito comunista italiano, diventando segretario della sezione giovanile di Sassari. Nel 1945, dopo la Liberazione, è a Milano come responsabile della Commissione giovanile centrale del Pci. Tre anni più tardi, al VI congresso del Partito, viene eletto membro effettivo del Comitato centrale e membro candidato della Direzione (con il IX congresso, svoltosi a Roma tra il 30 gennaio e il 4 febbraio 1960, fa il suo ingresso a pieno titolo in Direzione assumendo l’incarico dell’organizzazione). Dal 29 marzo al 2 aprile del 1950 si svolgeva a Livorno il Congresso di ricostituzione della Fgci, organizzazione giovanile del Partito comunista italiano.
Alla sua guida veniva nominato Enrico Berlinguer, che dirigerà l’organizzazione fino al 1956. “L’incarico di ricostituire la Federazione giovanile - scrive Chiara Valentini - la gloriosa Fgci che è stata guidata negli anni Venti e Trenta da Longo e Secchia, non è una responsabilità da poco. È certamente l’esperienza più importante e formativa che si trovi a vivere Berlinguer. Per il futuro segretario del Pci è in qualche modo una prova generale di quel che dovrà affrontare anni dopo. A meno di trent’anni Enrico è a capo di un’organizzazione che nei momenti più felici arrivò ai 460.000 iscritti”.
Segretario regionale del Pci del Lazio dal 1966 al 1969, entra in Parlamento per la prima volta nel 1968 e al XIII Congresso nazionale del Pci, che si tiene a Milano nel marzo del 1972, ne viene eletto segretario nazionale.
“Avanti, dunque, compagni! - aveva detto aprendo i lavori - Impegniamo in questa lotta tutte le forze nostre, che sono presenti in ogni dove: dalle fabbriche ai campi, dalle scuole agli uffici, agli stessi apparati statali; dai quartieri delle città ai più sperduti comuni; nei mondo del lavoro ed in quello artistico e culturale. E il nostro appello va anche a quei nostri compagni e fratelli emigrati costretti a cercare all’estero quel pane che le classi dirigenti hanno loro negato. È questo potenziale sterminato di energie che deve essere mobilitato, non soltanto per la prova elettorale che ci attende, ma per un obiettivo più ampio: quello di unire e organizzare i lavoratori italiani in classe dirigente, per costruire una nuova Italia, per avanzare, nella democrazia, verso il socialismo”.
Sarà il segretario più amato del Partito, quello che porterà il Pci al massimo consenso storico. Il 7 giugno 1984, dopo un comizio elettorale a Padova, Enrico Berlinguer viene colto da un malore. Morirà l’11 giugno, dopo quattro giorni di coma, a 62 anni.
Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini farà trasportare la sua salma sull’aereo presidenziale dichiarando: “Lo porto via come un amico fraterno, come un figlio, come un compagno di lotta”. Al funerale, a Roma il 13 giugno, parteciperà circa un milione e mezzo di persone e a rendere omaggio alla salma andrà anche il nemico per eccellenza, Giorgio Almirante, senza scorta, mettendosi in fila come gli altri.
Il corteo con la bara sfila dalla sede del Pci, in via delle Botteghe Oscure, a Piazza San Giovanni. Un lamento collettivo risuona in continuazione: “Enrico, Enrico”. “Un popolo intero trattiene il respiro e fissa la bara, sotto al palco e alla fotografia. La città sembra un mare di rosse bandiere e di fiori e di lacrime e di addii”, cantano i Modena City Ramblers, “gli amici e i compagni lo piangono, i nemici gli rendono onore, Pertini siede impietrito e qualcosa è morto anche in lui”.
“Si sa chi muore ma non si sa chi nasce - scriveva su l’Unità del 13 giugno quel Roberto Benigni che lo aveva preso in braccio in una immagine diventata iconica - Mi sarebbe piaciuto di più scrivere queste righe per la nascita di Berlinguer, invece quando nacque non se ne accorse nessuno. Una volta, a un festival dell’Unità, per ricambiare tutte le volte che mi ero sentito sollevato da lui, volli sollevare fisicamente Berlinguer in braccio. Ricordo che era leggero leggero, tant’è che gli sussurrai all’orecchio come usava fare mia madre con me: Enrico, mangia… Chissà se mangiava. Oh, il dono breve e discreto che il cielo aveva dato a Berlinguer era di unire parole e uomini, ora la sua voce è sparita e se è vero, come dice un poeta, che la vita si spegne in un falò di astri in amore, in questi giorni è bruciato il firmamento (…)”. Riprendendo le parole di Benigni diceva Natalia Ginzburg: “La sensazione che 'bruciava il firmamento', in quei giorni, l’abbiamo avuta tutti”.
Il 17 giugno alle elezioni europee il Pci decide di lasciare Enrico Berlinguer come capolista. Il Partito comunista italiano raggiungerà il 33,3 per cento superando la Democrazia cristiana. Sarà questo l’ultimo regalo al suo partito, quel Partito che era riuscito a portare al suo massimo storico.
Oggi Enrico avrebbe compiuto novantanove anni se un ictus non ce lo avesse strappato troppo presto, ma la luce delle stelle non si spegne mai, neanche quando muoiono. Ed Enrico brilla ancora, brillerà sempre. “Morire a 62 anni - diceva sempre Roberto Benigni - è come nascere a 24 mesi: uno non ci crede. E io sono sicuro che fra una settimana Berlinguer apparirà alla televisione con una bella camicia hawaiana. Io aspetto”. In fondo tutti noi aspettiamo ancora.