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Uno dei capisaldi della legislazione antimafia e della lotta alla criminalità organizzata è il riuso dei beni confiscati alle mafie, perché in questo c’è il senso della costruzione della legalità. È così?
L’elemento fondante l’aggressione alla criminalità organizzata è l’aggressione ai beni e ai patrimoni. Però l’alienazione dei beni fine a sé stessa, ovviamente, è carente di un elemento fondamentale che è quello del riscatto sociale, del recupero del territorio. Questo è un elemento importante. Per tale ragione possiamo affermare che aggredire i patrimoni delle mafie è importantissimo: la legislazione sul riutilizzo a fini sociali dei beni immobili e delle aziende – unica nel suo genere a livello internazionale – promuove il recupero sociale e la affermazione della legalità.
Ha un valore in sé, perché non solo viene restituito il maltolto ai territori e alle comunità, ma è anche la dimostrazione che quei beni possono avere un valore sociale reale.
Assolutamente. Parlando di giudizio sociale, e noi non dobbiamo ritenere che sia semplicemente un utilizzo a fini della socialità, ma per la società. In sostanza, attraverso l’utilizzo dei beni e la legalizzazione aziendale, ridiamo linfa vitale al territorio. Quindi fondamentalmente è un dovere dello Stato recuperare un territorio che era stato sottratto da parte della criminalità organizzata. Quindi non è una restituzione solo nel senso di restituire il maltolto, ma è la restituzione di un principio democratico della legalità. Il ripristino della legalità.
E serve, anche, a innescare un circuito virtuoso.
Certo, perché, quando un’azienda viene bonificata e rilanciata nella legalità, non si bonifica solo quell’azienda ma il territorio, consentendo così al territorio e al settore di riferimento di avere un competitor legale, che applica i principi del mercato. Un’azienda che agisce secondo i parametri criminali e criminosi non solo ricicla denaro proveniente da attività criminale, esercita una concorrenza sleale, avvelena il mercato. Ripristinando principi di legalità, si ripristina il mercato, la concorrenza leale in tutto il settore economico di quell’azienda.
E, se rimaniamo alle aziende confiscate, il ripristino di legalità significa anche paghe dignitose per i lavoratori e le lavoratrici, rispetto dei contratti collettivi, versamento dei contributi e delle imposte, ecc.
Da quando conosciamo il sistema mafioso sappiamo che il lavoro è sempre stato lo strumento fondamentale di ricatto da parte della criminalità organizzata. Non solo: come ci ricordava Carlo Alberto Dalla Chiesa, il lavoro veniva concesso come privilegio quando in realtà avrebbe dovuto essere riconosciuto come diritto. Lo affermano anche le ultime inchieste, quelle che riguardano logistica e grande distribuzione, e sempre più spesso, anche in finte cooperative che nascono e muoiono, aziende per fornire manodopera a basso costo che sfruttano lavoratori e lavoratrici, malpagati, senza contributi, con orari di lavoro fuori da ogni previsione contrattuale. Sfruttamento possibile perché approfitta dello stato di necessità in cui si trovano decine e decine di migliaia di persone, soprattutto migranti ma non solo.
Il valore del riuso sociale dei beni confiscati è indubbio e chiaro. Ma ci sono dei problemi. Innanzitutto, in capo all’Agenzia per i beni sequestrati e confiscati ci sono oltre 40.000 beni tra quelli immobili e le aziende, ma solo circa la metà sono stati riassegnati. Una parte consistente è stata letteralmente abbandonata. Spreco? Disattenzione? Cos’altro?
È necessario distinguere. Per quanto riguarda le aziende non sempre e non tutte sono in grado di stare sul mercato non inquinato dall’illegalità. Spesso gli amministratori giudiziari che vi entrano scoprono che non solo sono state condizionate dalla mafia, ma che l’intera attività è criminale. Il loro compito allora diventa immane perché occorre recuperare l’intera attività che in realtà veniva svolta con i sistemi illegali e molto spesso si ha a che fare con scatole semivuote svuotate – appunto – dagli ex titolari, trasformate in strumenti di clientelismo, che utilizzano materie prime di scarsa qualità, che applicano prezzi fuori mercato, oltre a sfruttare i lavoratori non pagandoli il dovuto e magari non versando i contributi. Insomma, è bruttissimo da dirsi, ma spesso è proprio quel "risparmio di legalità" che consente a quelle aziende di stare in piedi. E allora, altrettanto spesso gli amministratori giudiziari, riattivando le procedure e le prassi legali si accorgono che quelle attività in piedi non riescono a starci. Per fortuna non sempre è così, ma se un’azienda riportata alla legalità non è in grado di stare sul mercato è giusto venga chiusa ed è giusto faccia spazio a quelle in grado di stare legalmente sul mercato. Ovviamente i lavoratori di queste aziende devono essere reimmessi nel circuito del lavoro legale e devono essere salvaguardati. I lavoratori non sono le aziende; da tempo affermo che bisogna lavorare moltissimo proprio sulla circolarità e sulla rete delle aziende, in modo che, nel momento in cui una non può stare sul mercato e deve essere chiusa, cellula tumorale che deve essere tolta, i lavoratori vengano reimmessi in attività lavorative. Purtroppo i dati statistici ci dicono che una buona parte delle attività che vengano sequestrate e confiscate arrivano all’Agenzia completamente decotte, devono essere chiuse.
A volte capita, però, che ci siano aziende che potrebbero stare sul mercato se solo non gli venissero chiuse le linee di credito dal sistema bancario.
Esatto, ci sono aziende che non possono stare sul mercato, ce ne sono altre che hanno il vizio d’origine dell’illegalità, ma che in realtà possono stare in piedi, possono essere recuperate. Certo, innanzitutto con sacrifici enormi, anche da parte di lavoratori. Esistono tantissimi casi di cui si è occupata anche la Cgil, in cui i dipendenti hanno capito che investendo in azienda avrebbero potuto salvarla e rilanciarla, si sono ridotti il salario, hanno magari rinunciato al Tfr, affrontando difficoltà, perché spesso hanno trovato le casse vuote e debiti non saldati. E magari non solo le banche chiudono le linee di credito ma chiedono l’immediato rientro di eventuali scoperti o fidi perché non si fidano.
Così, però, il messaggio che passa è che per il settore creditizio quello mafioso è un sistema conveniente mentre quello legale è fragile e quindi non è più conveniente. Se così è, si innesca un circolo vizioso per cui poi la legalità diventa una zavorra.
È vero, è terribile. Però, per fortuna, ci sono sempre più istituti di credito che stanno maturando una sensibilità particolare. Spesso dirigenti di banca chiedono di seguire il Master Pio La Torre proprio per capire quali possono essere i meccanismi con cui sostenere queste aziende. E non penso solo a Banca Etica. È evidente però che, a fronte di una sensibilità che matura, c’è comunque bisogno – per finanziarla – che un’azienda sia solida, possa stare sul mercato. E questo vale anche per i progetti di riuso degli immobili confiscati. I bandi a volte vanno deserti perché dietro il progetto è fragile, se non insostenibile. Insomma, certo per quanto riguarda le aziende, ma vale anche per la gestione degli immobili, occorrono professionalità specifiche, gli amministratori giudiziari devono essere in grado e devono essere messi nelle condizioni di recuperare alla legalità i beni, magari «inventando» una nuova dimensione professionale e di mercato.
Tra i beni sequestrati e confiscati vi sono anche risorse economiche che però finiscono nel fondo unico per la giustizia, non potrebbero invece essere utilizzate proprio per dare nuova vita sia alle aziende che sono in grado di stare sul mercato, che ai beni immobili che magari devono essere ristrutturati?
È una giusta battaglia che abbiamo fatto e continuiamo a fare. In effetti viene sequestrata e confiscata una quantità enorme di capitali. La risposta ufficiale a questa richiesta che poniamo, noi che ci occupiamo di questi temi, è che nel Fondo unico giustizia (FUG) finiscono sia capitali sequestrati che confiscati e il rischio è che vengano utilizzate risorse che poi invece devono essere restituite ai titolari. Peraltro il Codice antimafia prevede che una piccola percentuale di fondi possano essere assegnati a questo fine. Poi – è bene ricordare – dal FUG derivano anche tutti i fondi per la tutela delle vittime di mafia. In ogni caso credo che il FUG sia un tesoretto che viene utilizzato per diversi fini ed è importante che non venga scalfito più di tanto. Però stiamo parlando di capitali veramente immensi e secondo me bisognerebbe utilizzarlo per riconsegnare alla legalità aziende e beni. Spesso, insieme al procuratore Francesco Mendito, che di queste questioni si intende bene, interveniamo sul FUG. Non si capisce bene a quale ministero appartenga e quale sia la sua consistenza reale. Sarebbe opportuno che una quota di questo fondo, il 20 o il 30 per cento, venisse destinata alla restituzione alla legalità di aziende e beni sequestrati e confiscati. Già così si avrebbe una cifra consistente da utilizzare per dar nuova vita ad aziende e immobili da restituire alla società legale.
Si torna a parlare di mettere all’asta i beni confiscati. Addirittura ho letto, alcune settimane fa, su Il Giornale che in un paio di province della Lombardia i tribunali hanno messo a punto delle procedure agevolate per poter vendere i beni anche prima di averli definitivamente a disposizione, ma comunque in 30 giorni. Cosa ne pensi?
Bisogna fare un discorso molto laico sulla vendita dei beni, anche perché il nostro Codice comunque ne prevede la vendita, ad esempio per il risarcimento dei danni alle vittime, quando non ci sia altro modo di indennizzarle. Ovviamente vendita da eseguire con tutti i criteri e le precauzioni del caso. Naturalmente ritengo che la vendita del bene perché non è stato assegnato sia un fallimento, un enorme fallimento. Insomma – ne parlo sempre perché ne sono profondamente convinta – nella costruzione di legalità c’è una responsabilità da agire. La responsabilità è anche nostra e della collettività che si deve attivare per riuscire a riassegnare il bene. C’è la responsabilità dell’Agenzia per i beni confiscati e sequestrati, che deve essere efficace ed efficiente nel facilitare i meccanismi di assegnazione. Quindi, certo anch’io, come la Cgil, sono contraria al metterli all’asta, perché vendere un bene che non è stato assegnato, perché nessuno l’ha voluto, perché i meccanismi sono stati troppo complicati, perché alla fine alcuni enti locali molto spesso vedono la presenza di un bene confiscato sul proprio territorio come una disgrazia e non come un’opportunità è, come dicevo, un fallimento. Credo che questo sia il vero problema. Anche gli enti locali non investono a sufficienza sulla formazione dei loro dirigenti affinché siano conoscitori e partecipativi dei meccanismi per il riutilizzo dei beni. Ma gli enti locali sono il cuore del meccanismo per le riattivazioni. E questo vale più per i grandi che per i piccoli nonostante per loro ci siano delle difficoltà oggettive che riguardano la mancanza di personale, ma i piccoli comuni – paradossalmente – sono quelli che li assegnano, li riutilizzano di più. Insomma, servono senso di responsabilità dell’amministratore locale e la capacità dei dirigenti. Sì, la capacità: quando su richiesta della Commissione Parlamentare Antimafia redigevo il Vademecum per gli Enti Locali per il riutilizzo e la valorizzazione dei beni sequestrati e confiscati, mi sono resa conto che, a volte, i dirigenti locali non sapessero neanche come accedere alla piattaforma per capire se ci fossero dei beni sui propri territori. Insomma, occorre assumersi la responsabilità di farsi parte attiva nella costruzione della legalità, individuare nelle pieghe del bilancio del proprio ente le risorse necessarie, o saper attivare i fondi dei ministeri che possono essere utili a questo fine, ecc.
Questo richiamo all’assunzione di responsabilità riguarda solo gli enti locali o anche i diversi attori sociali?
La responsabilità è e deve essere della collettività, della comunità. E – lo dico sempre – la responsabilità è anche mia, è di ciascuno di noi nel ruolo che svolge. Il sindacato, la Cgil penso sia la realtà sociale più sensibile rispetto a queste tematiche. E si è rivelata un interlocutore importante anche nel momento delle riforme. Se penso al percorso che ha portato al Nuovo codice antimafia, fondamentale è stata la raccolta di firme promossa anche, forse soprattutto, dalla Cgil sulla proposta di legge di iniziativa popolare Io riattivo il lavoro. In questi anni abbiamo anche acquisito una forma di collaborazione e di scambio tra magistrati, sindacalisti, docenti e mondo dell’associazionismo. Stando insieme ci siamo contaminati nelle nostre conoscenze, nelle nostre sensibilità. Però dobbiamo continuare perché dall’altra parte non stanno fermi, continuano periodicamente a cercare di smantellare il meccanismo del riutilizzo a fini sociali dei beni, e ho la preoccupazione che possano arrivare anche a smantellare il meccanismo dell’aggressione patrimoniale delle organizzazioni mafiose. Ho il grandissimo timore che si voglia dimostrare che il riutilizzo dei beni non sia efficace ed efficiente per arrivare a dire bene che se questi beni non possono utilizzare non vale la pena sequestrarli. Occorre essere vigili. Temo davvero che l’obbiettivo sia arrivare a smantellare la legislazione che consente e promuove l’aggressione dei patrimoni mafiosi. Questa sì sarebbe davvero una sconfitta per tutti.