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Il 23 settembre 1985 la camorra uccide a Napoli il giornalista Giancarlo Siani, 26 anni compiuti da poco. L’agguato avviene alle 20 e 50 circa, a pochi metri dalla sua abitazione, nel quartiere napoletano del Vomero. Il giornalista viene colpito dieci volte in testa dagli spari di due pistole Beretta.
Paolo Siani, unico rimasto in vita della famiglia, ricorda il fratello come un ragazzo carismatico, capace di grandi sacrifici, ma anche estremamente solare. “Di noi due, insieme - racconterà in un’intervista - conservo l’immagine di una giornata a Roma, a una marcia per la pace. Io col gesso che gli dipingo in faccia il simbolo anarchico della libertà. E lui che mi sorride”.
Era preciso, minuzioso, non lasciava nulla al caso, si informava, chiedeva, controllava, verificava, ricorda ancora Paolo. Era un Giornalista giornalista per citare il titolo di un libro a lui dedicato. Un giornalista che tra il 1979 e il 1985 pubblica 651 articoli, molti dei quali relativi a fatti di camorra.
Ma Giancarlo scrive anche di lavoro, giovani, diritti negati, malaffare, corruzione, morti bianche, cultura e movimenti per la pace.
“A condannarlo a morte - affermava Adriana Maestro, presidentessa dell’Associazione Culturale Giancarlo Siani - erano state le ricerche che stava conducendo sulla ricostruzione seguita al terremoto dell’80, le inchieste sul grande business degli appalti che aveva gonfiato le tasche dei politici, imprenditori e soprattutto camorristi. A condannarlo a morte furono infine quelle quattromila battute pubblicate sul Mattino del 10 giugno 1985, in cui Siani avanzava l’ipotesi che l’arresto di Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuvoletta per evitare una guerra con il clan di Bardellino. Quell’articolo fu la goccia che fece traboccare il vaso: i clan non potevano più sopportare che un cronista alle prime armi rivelasse i loro patti, denunciasse i loro rapporti con il mondo della politica e si permettesse persino di farli passare per infami. La soluzione era lì, nero su bianco, ma non si ebbero né il coraggio né l’umiltà di vederla”.
‘Da grande voglio fare il giornalista’, scriveva Giancarlo su Il lavoro nel Sud nel luglio 1979.
Grande, almeno anagraficamente, non lo diventerà mai, ma giornalista professionista sì. Un titolo conferitogli alla memoria, frutto di una scelta dell’Ordine nazionale e di quello della Campania dei giornalisti.
“Ci sono giornalisti che vengono messi a tacere con le armi, altri con la delegittimazione: a Giancarlo Siani toccarono entrambe le cose”, diceva Roberto Saviano. “Gli articoli di Siani appaiono purtroppo ancora attuali per i loro contenuti: basta sostituire il nome di un boss o di un politico o di un paese per capire che il sistema non è cambiato, che i meccanismi sono sempre gli stessi, semmai si solo evoluti, modernizzati, perfezionati. La terra che raccontava Siani, Torre Annunziata degli anni Ottanta, non è molto diversa da certi quartieri di Napoli oggi: magari è cambiato ciò che si spaccia, ma non le dinamiche. Le stesse immagini che Siani descriveva si vedono adesso nelle favelas del Brasile, nelle banlieues parigine, nei bronx delle metropoli statunitensi, nelle città di frontiera del Messico. Ci sono dinamiche criminali che non hanno confini, sono internazionali: si muore a Napoli come a Rio, muore chi racconta a Nuevo Laredo come chi racconta in Guatemala”.
Ed è proprio per questo che la memoria deve essere coltivata.
Perché “Puoi cadere migliaia di volte nella vita ma se sei realmente libero nei pensieri, nel cuore e se possiedi l’animo del saggio potrai cadere anche infinite volte nel percorso della tua vita, ma non lo farai mai in ginocchio, sempre in piedi”. Sempre in piedi.