Mercoledì 26 giugno il presidente della Repubblica Mattarella ha promulgato la legge sull’autonomia differenziata. In base a questo provvedimento Regioni e Province autonome potranno chiedere “regole proprie” su ben 23 materie: dalla tutela della salute all’energia, dai trasporti all’istruzione, cui si aggiungono 14 materie definite dai Livelli essenziali di prestazione (Lep).

Un progetto che frantuma l’Italia, differenza i diritti secondo il luogo di nascita, aumenta le disuguaglianze già esistenti tra Nord e Sud del Paese, mette a rischi servizi e tutele per le cittadine e i cittadini. A Pino Gesmundo, segretario confederale Cgil, abbiamo chiesto una riflessione su questa riforma realizzata dal governo.

L’autonomia differenziata è legge. Per il settore industriale e lo sviluppo del Paese può rappresentare un’opportunità?

Non scherziamo: questo provvedimento otterrà l’effetto esattamente opposto, indebolendo ancora di più il nostro assetto industriale e produttivo. Del resto, l’idea di delegare poteri alle Regioni si sviluppa in Italia alla fine degli anni Ottanta. Un mondo completamente diverso da quello odierno, diviso in blocchi d’influenza molto rigidi e con apparati industriali nazionali molto forti. Ancora non si era imposta la globalizzazione: il modello di sviluppo era fortemente indirizzato dalle politiche nazionali e nel nostro Paese si investivano significative risorse pubbliche al Sud per accorciare le distanze economiche presenti.

Cosa successe allora?

In quel contesto, la Lega di Umberto Bossi impose un modello culturale basato sia sul fatto che i soldi pubblici dovessero finanziare maggiormente il Nord del Paese sia che le decisioni non dovevano essere assunte dallo Stato ma dalle comunità locali. Quell’idea contaminò, inducendola a commettere un errore, anche la politica di sinistra, producendo la modifica al Titolo V della Costituzione. Da quel momento le diseguaglianze territoriali hanno ripreso ad aumentare e, complice la privatizzazione delle partecipazioni pubbliche che si erano rese protagoniste nel disegnare le politiche industriali in Italia, attraverso il sistema degli incentivi alle imprese la spesa si è spostata in maniera prevalente verso il Nord, abbandonando il Sud a un lungo declino.

Arriviamo dunque a oggi…

E oggi dobbiamo dire che implementare quel disegno è totalmente sbagliato. Il mondo è completamente diverso, l’economia si è globalizzata, la competizione avviene su scala continentale e non più nazionale, le sfere d’influenza sono diverse. Mentre il mondo compete su scala continentale, noi deleghiamo aspetti fondamentali dello sviluppo alle Regioni. Un’autentica follia.

Questa visione non è eccessivamente pessimistica?

No, affatto. Noi possiamo comprendere ciò che succederà guardando quanto è già successo. Aver delegato la salute alle Regioni ha prodotto 20 sistemi regionali diversi, con diversi livelli di qualità del sistema sanitario. La delega di materie fondamentali per lo sviluppo del Paese produrrà effetti ancora peggiori, perché nessuna Regione, neanche quelle più sviluppate del Nord, potranno competere con un sistema in cui la sfida è tra continenti.

Un esempio?

L’urgenza di abbandonare l’utilizzo di combustibili fossili e realizzare la transizione ambientale necessaria a impedire il riscaldamento del pianeta, imporrà scelte radicali nello sviluppo di nuove tecnologie. Assegnare alle Regioni la produzione, il trasporto e la distribuzione dell’energia impedirà di competere sulle nuove tecnologie, un campo in cui perfino le politiche nazionali sono insufficienti. Non essere in grado di competere sui nuovi modelli di produzione dell’energia, basati sulle fonti rinnovabili o su tecnologie neutre dal punto di vista dell’emissione carbonica, condannerà il nostro Paese ad avere un costo dell’energia più alto dei nostri competitor, mettendo fuori mercato il nostro sistema industriale.

Anche qui: non è una visione troppo pessimistica?

No, e lo spiego con un esempio. Negli anni scorsi abbiamo delegato alle Regioni le centrali idroelettriche, fondamentali per la produzione di energia pulita. Da allora è mancata una programmazione puntuale, producendo un sostanziale stallo delle attuali concessioni idroelettriche. In attesa di decidere cosa fare, anche sulla base delle regole europee, le singole Regioni non sono state in grado di realizzare condizioni di certezza sul futuro delle attuali concessioni, determinando di fatto un blocco totale degli investimenti. Il risultato è che le centrali producono meno e sono più obsolete, ritardando in maniera significativa il processo di decarbonizzazione. Nei prossimi anni ci saranno scelte che dovranno essere compiute a livello europeo e noi ci presenteremo a quell’appuntamento divisi in 20 Regioni con idee, progetti e programmi diversi, condannando l’intero Paese alla marginalità perché ci avviteremo in un ritardo sull’innovazione tecnologica necessaria.

Sull’energia è un errore, ma sulle altre materie delegate alle Regioni?

Su tutte le materie legate al nuovo modello di sviluppo determinato dalla transizione energetica e dalla trasformazione digitale, la competizione avverrà su scala continentale. Pensiamo agli investimenti fatti dagli Stati Uniti o dai Paesi asiatici, Cina in testa. Noi, che avremmo bisogno di decisioni assunte a livello di comunità europea, anche e soprattutto per identificare le risorse necessarie a sostenere le trasformazioni in atto, deleghiamo le materie alle singole Regioni. Andiamo in direzione esattamente opposta a quella del mondo.

Altri esempi?

Nell’epoca di internet globale, dell’intelligenza artificiale, dei server e del cloud, dei mega computer, noi affidiamo l’ordinamento della comunicazione alle Regioni: in una sfida che riguarda i continenti, noi viaggeremo in ordine sparso. Oppure deleghiamo alle Regioni le ‘grandi reti di trasporto e navigazione’. Già la parola ‘grandi’ dovrebbe far riflettere: nel mondo gli operatori di trasporto marittimo si possono contare sulle dita di una mano e hanno un potere enorme. Da quei soggetti noi ci presenteremo come singole Regioni: temo che le grandi compagnie marittime mercantili che determinano i traffici mondiali neanche sappiano cosa sono le Regioni italiane. Stesso discorso vale per porti e aeroporti. Per aumentare o consolidare i traffici di container, fondamentali per l’economia globale, noi avremo piccole Regioni a discutere con colossi globali.

L’autonomia differenziata rischia dunque di essere un boomerang per tutto il Paese.

Più che un rischio, è una certezza. Siamo in presenza di trasformazioni epocali, digitalizzazione e transizione energetica, che richiedono investimenti immensi in innovazione, ricerca e sviluppo. E noi? Noi trasferiamo queste materie alle Regioni, inclusa l’istruzione. Ma possiamo sperare di avere un’opportunità di riuscire a preservare l’apparato industriale - siamo pur sempre il secondo Paese europeo per produzione industriale - spezzettando gli asset fondamentali? Non rendersi conto che stiamo portando avanti un processo iniziato 30 anni fa con un mondo completamente diverso da quello di oggi e che la competizione oggi avviene su un piano continentale e non più nazionale, è l’esatto contrario di quello che serve. Come Paese dovremmo convincere l’Europa a predisporre politiche industriali comuni, proprio per evitare che le produzioni si spostino sugli altri continenti, e soprattutto identificare le ingenti risorse, in Europa si parla di 500 miliardi all’anno per dieci anni, a livello europeo, necessarie a sostenere le trasformazioni in atto.

Il governo si è quindi assunto una grande responsabilità. Cittadinanza e società civile, a questo punto, cosa possono fare?

Servirebbe anzitutto un governo disponibile ad aprire un confronto con le parti sociali e il mondo produttivo, si vedano le critiche sollevate da Confindustria con sempre maggiore frequenza al progetto di autonomia differenziata, e non ancorato a bandierine ideologiche nate in un passato completamente superato. Per questo dovremo contrastare questo progetto con determinazione, arrivando anche a promuovere un referendum che possa far pronunciare le cittadine e i cittadini italiani sull’inadeguatezza delle scelte del governo rispetto alle esigenze dell’oggi.