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L'articolo che segue è tratto da Idea Diffusa, l'inserto sul lavoro 4.0 realizzato da Rassegna Sindacale insieme all'Ufficio lavoro 4.0 della Cgil. Qui il pdf del nuovo numero
Le competenze della popolazione adulta nel nostro Paese sono in una situazione piuttosto critica. Gli adulti analfabeti funzionali (low skilled) sono presenti in maniera pervasiva, seppure in percentuali diverse, nei vari sottogruppi di popolazione. L’Italia si colloca in quart’ultima posizione in Europa per la literacy (ossia la capacità di comprendere, utilizzare e interpretare documenti scritti per svolgere un ruolo attivo nella società attuale) e in quint’ultima per la numeracy (la capacità degli adulti di reperire, utilizzare, interpretare e comunicare informazioni e idee matematiche per risolvere problemi di natura matematica e in situazioni di vita quotidiana). È quanto emerge dal progetto “Equal” realizzato dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche nel quadro di un programma della Commissione europea assieme vari partner, tra cui la Cgil nazionale.
Se consideriamo chi è fuori dal mercato di lavoro, risulta low skilled il 37,8% dei pensionati, il 35,9% delle persone che svolgono lavori domestici e di cura non retribuiti (in prevalenza donne) e il 35,3% dei disoccupati. In quest’ultima categoria emergono differenze legate all’età: tra i 16-24enni i low skilled sono circa il 24%; superano il 27% nella fascia 25-34 anni e si aggirano intorno al 40% tra i 35-54enni; andando avanti si arriva fino al 60% di analfabeti funzionali per i disoccupati over 54 anni. Si conferma così un dato ampiamente noto in letteratura socio-economica: il lavoro è uno dei driver fondamentali delle competenze, favorisce l’uso e il mantenimento di quelle che gli individui già possiedono e tende a svilupparne di nuove. Gli occupati sono infatti la categoria che, dopo gli studenti, ha la minore incidenza di individui low skilled, con ulteriori e notevoli differenze dettate dalla qualifica occupazionale e dal possesso di un diploma.
Le competenze espresse dagli adulti sono fortemente correlate anche al retroterra familiare di provenienza. Questa tendenza è particolarmente evidente in Italia, dove l’86% dei low skilled proviene da nuclei in cui entrambi i genitori hanno un titolo di studio inferiore al diploma, mentre solo il 2,4% ha almeno un genitore laureato. Un’ulteriore variabile è rappresentata dallo status migratorio: le persone nate in Paesi diversi da quelli in cui risiedono e che hanno svolto i test in una lingua diversa dalla madrelingua, sono infatti in una situazione di evidente svantaggio rispetto al possesso delle competenze necessarie per integrarsi nella realtà lavorativa e sociale del Paese che li ospita. In Italia ciò appare particolarmente marcato: tra i migranti, i low skilled in literacy sono il 43,3%, a fronte di una media Ocse Piaac che è circa il 24%.
Va detto che l’infrastruttura normativa costituisce un notevole punto di forza del nostro sistema nazionale. Il quadro legislativo è oggi in grado di cogliere la complessità derivante dalla necessità di tenere sotto controllo e garantire regole chiare rispetto alle molte componenti dell’apprendimento permanente e, soprattutto, delle relative connessioni con il mercato del lavoro e con le politiche sociali. Ma la governance che ha reso possibile il disegno complessivo di questi dispositivi rimane complessa, multilivello e multiattore: si pone oggi, pertanto, il tema dell’implementazione e del relativo controllo, così come del monitoraggio degli effetti e della valutazione degli impatti. Occorre, inoltre, sottolineare come i diversi impianti normativi siano stati disegnati con livelli di dettaglio necessari, ma che potrebbero far perdere di vista l’esigenza di una razionalizzazione e di una visione sul medio-lungo periodo.
In altri termini, il nostro Paese non appare dotato di un piano nazionale finalizzato al superamento dell’analfabetismo funzionale. Pianificare qualcosa del genere richiede certamente un’intensificazione degli sforzi nel trovare le migliori forme di dialogo possibile tra i diversi attori, in vista del superamento della parcellizzazione con la quale sono stati affrontati i processi decisionali. Una governance efficiente può presidiare non solo l’implementazione delle policies (e il suo adattamento progressivo a nuovi scenari), ma anche – e soprattutto – rendere operativi i dispositivi in esse delineati.
Per quanto riguarda i bassi livelli di partecipazione, le linee di azione sembrano essere sostanzialmente due: “dare gambe” e potenziare i servizi previsti già al momento dell’accordo in Conferenza unificata e individuati nel quadro del potenziamento dell’orientamento permanente e agire sul fronte della sensibilizzazione e della mobilitazione. Nel primo caso, l’infrastruttura che appare più efficace sembrerebbe quella dell’one stop shop, ovvero di un luogo fisico all’interno del quale siano rintracciabili per l’utenza un insieme di servizi, distinti per finalità immediate, ma limitrofi e interfunzionali rispetto ai bisogni delle persone. Counselling and coaching, informazione e assistenza tecnica, pratica dell’ascolto e capacità di far emergere bisogni reali, spesso latenti, sono le attività cui sarebbero chiamati gli operatori di questi “sportelli unici”.
Certamente, attivare pratiche del genere è complesso e costoso. Inoltre, nonostante alcuni esempi siano rintracciabili, anche in letteratura, la dimensione delle sperimentazioni è limitata, così come limitate sono le possibilità di un completo trasferimento di queste pratiche. La prima sfida consiste nel “rendere visibile ciò che visibile non è”: il disagio latente e profondo degli individui che dovrebbero essere raggiunti e sostenuti gioca un ruolo dominante, riproducendo e rafforzando continuamente comportamenti di “fuga” – con la maturazione di percezioni di inutilità dell’intervento, soprattutto pubblico – e di sottrazione dagli impegni, per quanto minimi, richiesti per accedere ai servizi. Anche in questo caso la strategia percorribile non può che essere caratterizzata da progressività e distinzione in fasi da attivare nel breve e azioni da programmare nel medio-lungo periodo.
Nel breve occorrerebbe: a) incrementare la visibilità delle esperienze che hanno mostrato significative capacità di intervento e di rottura anche se sviluppate su territori limitati e su target fragili molto specifici. Ad esempio, molte lezioni possono essere apprese studiando e diffondendo ciò che è stato fatto in alcune zone nell’ambito della lotta alla dispersione scolastica, pensiamo al caso dei “maestri di strada” napoletani e siciliani; b) ricorrere massicciamente a campagne di sensibilizzazione, utilizzando modelli di comportamento e testimoni, studiandone attentamente i linguaggi per offrire una narrativa dei servizi offerti più comprensibile e rassicurante; c) mappare le risorse disponibili sui territori, prestando particolare attenzione ai luoghi di aggregazione finora esclusi dalle (poche) reti territoriali di servizio esistenti, sostenendo il loro ruolo attrattivo con risorse finanziarie e operatori specializzati (Asl, uffici postali, terminal di trasporti pubblici, mercati alimentari, eccetera).
In parallelo, e con aspettative di risultati sul medio-lungo periodo, potrebbero essere considerate altre azioni di sistema: a) potenziare le competenze degli operatori dei servizi per l’impiego, dei servizi sociali, dei dirigenti scolastici e degli insegnanti dei Cpia, dei volontari (soprattutto nel servizio civile), delle associazioni di cittadini, dei responsabili di biblioteche e musei; b) avviare massicce campagne di sensibilizzazione attraverso media convenzionali (tv, radio, giornali e periodici, cartellonistica stradale) e social network; c) istituire premi e riconoscimenti in beni e servizi, fino ad arrivare a piccole esenzioni fiscali, la cui esigibilità e riscossione potrebbe essere assoggettata a condizionalità in campo educativo e formativo. Rafforzare l’immagine e la credibilità della leva “istruzione per gli adulti”, promuovendone non solo le finalità tipiche (acquisizione di titoli e qualifiche e crescita e sviluppo personale), ma anche quelle legate a obiettivi di occupabilità, implica la drastica riduzione delle risposte educative e formative non adeguate ai bisogni dei discenti. Ciò significa poter contare sempre di più sull’affidabilità delle rilevazioni e degli strumenti legati alla comprensione del mercato del lavoro potenziando, allo stesso tempo, la capacità di definizione dei percorsi educativi e formativi offerti.
Claudio Vitali, Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche