Anche quest’anno il 15 novembre è l’Equal pay day, il giorno scelto dall’Europa per segnalare che da qui fino al 31 dicembre, in confronto alle paghe degli uomini, le donne lavorano senza essere retribuite. È la conseguenza del Gender pay gap, ossia del differenziale salariale di genere, che secondo le statistiche europee più recenti (Eurostat 2022) tocca il 13,2% come media dell’area euro mentre l’Italia per una volta si distingue in melius rispetto ai Paesi vicini, persino quelli del Nord, registrando una media di appena il 4,3%.

Tutto bene quindi? No, per nulla. Appena qualche giorno fa l’Inps ha presentato il proprio Rendiconto annuale (dati 2022) denunciando un Gender pay gap settimanale medio del 28% che a livello giornaliero nel settore privato tocca il 34,5%, e nel pubblico il 27,7%. In questa mole di dati che si sovrappongono appare difficile capire come stiano davvero le cose ma basta avere la giusta chiave di lettura: i dati Eurostat si riferiscono alla paga oraria; quelli Inps – che coincidono con quelli di altri istituti di ricerca come l’Inapp per esempio - si basano sulla paga giornaliera, settimanale e a volte mensile, iI che fornisce un quadro molto più reale della situazione del nostro Paese.

In Italia il divario salariale di genere, che poi diventa anche pensionistico, è alto e penalizza le donne durante tutto il corso della loro vita. La maggioranza delle lavoratrici del privato è impiegata nei settori a minore riconoscimento sociale e retribuzioni basse: commercio, turismo, pulimento, cura. Settori caratterizzati da una fortissima frammentazione del lavoro con contratti temporanei, a chiamata, stagionali, in somministrazione.

Inoltre, in virtù del forte pregiudizio culturale che ancora le vuole inaffidabili perché maggiormente dedite alla cura di figli e famiglia, le italiane molto più degli uomini hanno contratti di lavoro part-time frequentemente non volontario. Retribuzioni base basse, meno ore e meno giorni di lavoro nell’arco dell’anno e il Gender pay gap reale è servito toccando, in alcuni settori professionali, anche il 40%. È sempre il fattore culturale quello alla base di questa proporzionalità inversa che vuole in Italia le donne pagate quasi quanto gli uomini nelle professioni a minore riconoscimento sociale e retributivo, e molto meno dei colleghi là dove si guadagna di più.

Nel privato poi, le disuguaglianze retributive sono influenzate anche dal sistema delle premialità negoziate collettivamente – che spesso non tengono conto delle differenze di genere - ma soprattutto individualmente: aumenti retributivi attribuiti ad personam, incrementi per l’anzianità, indennità mensili integrative dello stipendio, fringe benefits e premi vari.

Per contrastare tutto questo, l’Unione europea della prima maggioranza Ursula nella quale S&D e Verdi avevano un peso importante, e sulla quale hanno molto lavorato anche la Ces e il Comitato donne della Ces – Confederazione europea dei sindacati –, ha emanato la direttiva sulla Pay transparency che prevede una serie di misure che rendano possibile comparare le retribuzioni per lavori di uguale valore tra maschi e femmine, e di intervenire per promuovere la parità retribuiva. La direttiva dovrà essere recepita anche in Italia entro il 2026 e già il mondo delle imprese, per cui l’adeguamento delle retribuzioni uomo/donna sarà un costo, si stanno organizzando per un accoglimento light.

Intanto, restano a nostra disposizione strumenti più immediati sui quali la Cgil può e deve impegnarsi: una contrattazione collettiva che tenga ben presente le differenze di genere e la promozione nella società e nell’immaginario collettivo, della cultura della parità. A partire, per esempio, dall’introduzione del congedo di paternità obbligatorio e paritario che scardini finalmente lo stereotipo del papà che lavora e la mamma che lava i piatti.

Esmeralda Rizzi, Politiche di genere Cgil e componente del Comitato donne Ces