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Diceva Benito Mussolini su il Popolo d’Italia del 31 agosto 1934: “L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale”. La prima offensiva al lavoro femminile del Regime si avrà nell’insegnamento.
Con il regio decreto 2480 del 9 dicembre 1926 le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto (già il regio decreto 1054 del 6 maggio 1923 - riforma Gentile - vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie. Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare).
La riforma Gentile istituirà, tra l’altro, il liceo femminile. I licei femminili, recita l’articolo 65 della riforma, hanno “per fine di impartire un complemento di cultura generale alle giovinette che non aspirano né agli studi superiori né al conseguimento di un diploma professionale”. Nel liceo femminile si insegnano lingua e letteratura italiana e latina, storia e geografia, filosofia, diritto ed economia politica; due lingue straniere, delle quali una obbligatoria e l’altra facoltativa; storia dell’arte; disegno; lavori femminili ed economia domestica; musica e canto; uno strumento musicale; danza (“La scuola professionale femminile – recita l’art. 7 – ha lo scopo di preparare le giovinette all’esercizio delle professioni proprie della donna e al buon governo della casa. Nella scuola professionale femminile si insegnano: cultura generale (italiano, storia, geografia, cultura fascista), matematica, nozioni di contabilità, scienze naturali, merceologia, disegno, nozioni di storia dell’arte, economia domestica, igiene, lavori donneschi, lingua straniera, religione”).
Una legge del 1934 (legge 221) limiterà notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati. L’anno successivo, il regio decreto n. 989/1939 preciserà addirittura quali impieghi statali potessero essere alle donne assegnati: servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi di istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca. L’articolo 4 della stessa legge, suggerirà altri impieghi “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di dieci impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda.
Del resto lo stesso pontefice Pio XI, con l’Enciclica Quadragesimo Anno, condannava nel maggio 1931 il lavoro delle donne fuori dalle mura domestiche affermando: “Così, traviando dal retto sentiero i dirigenti della economia, fu naturale che anche il volgo degli operai venisse precipitando nello stesso abisso, e ciò tanto più che molti sovraintendenti delle officine sfruttavano i loro operai, come semplici macchine, senza curarsi delle loro anime, anzi neppure pensando ai loro interessi superiori. E in verità fa orrore il considerare i gravissimi pericoli a cui sono esposti nelle moderne officine i costumi degli operai (dei giovani specialmente) e il pudore delle giovani e delle donne, gli impedimenti che spesso il presente ordinamento economico e soprattutto le condizioni affatto irrazionali dell’abitazione recano all’unione e alla intimità della vita di famiglia; alle difficoltà di santificare debitamente i giorni di festa … È bensì giusto che anche il resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze, contribuisca al comune sostentamento, come già si vede in pratica specialmente nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi dell’età dei fanciulli né della debolezza della donna. Le madri di famiglia prestino l’opera loro in casa sopra tutto o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri, e particolarmente la cura e l’educazione dei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare”.
Le donne quindi devono rimanere a casa, e fare figli, tanti! Nel 1933 Mussolini istituisce la Giornata della madre e del fanciullo, fissata significativamente al 24 dicembre. Le 93 madri più prolifiche d’Italia (almeno 14 figli) vengono ricevute dal duce e dal Papa ed ottengono un premio in denaro. La medaglia d’onore per le madri di famiglie numerose sarà istituita con la legge n. 917 promulgata da Vittorio Emanuele III il 22 maggio 1939. Era destinata alle madri di famiglie numerose ed andava portata sul lato sinistro del petto, in occasione di tutte le feste nazionali, solennità civili e pubbliche funzioni.
“La donna fascista - affermava Polvarelli, capo ufficio stampa della Presidenza del Consiglio nelle direttive ai giornali del 1931- deve essere fisicamente sana per poter diventare madre di figli sani, secondo le regole di vita indicate dal Duce nel memorabile discorso ai medici. Vanno quindi assolutamente eliminati i disegni di figure femminili artificiosamente dimagrate e mascolinizzate, che rappresentano il tipo di donna sterile della decandente civiltà occidentale”.
“La indiscutibile minore intelligenza della donna - tornerà a scrivere Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia (1938) - ha impedito di comprendere che la maggiore soddisfazione può essere da essa provata solo nella famiglia, quanto più onestamente intesa, cioè quanto maggiore sia la serietà del marito … La conseguenza dell’emancipazione culturale - anche nella cultura universitaria - porta a che sia impossibile che le idee acquisite permangano se la donna non trova un marito assai più colto di lei . … deve diventare oggetto di disapprovazione, la donna che lascia le pareti domestiche per recarsi al lavoro, che in promiscuità con l’uomo gira per le strade, sui tram, sugli autobus, vive nelle officine e negli uffici … Il lavoro femminile … crea nel contempo due danni: la «mascolinizzazione» della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito …; concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.
“Piccola Italiana” - si leggeva in uno del tanti libretti del ventennio - “questo è il decalogo della tua disciplina: La Patria si serve anche spazzando la propria casa”. Che dire, molta strada abbiamo fatto da quei tempi bui e lontani, ma tanta ce ne rimane da fare.