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Tra i provvedimenti urgenti emanati dall’allora governo Conte bis nel maggio 2020 e ratificato dal Parlamento a luglio dello stesso anno, ci sono risorse per “favorire, attraverso l’indipendenza economica, percorsi di autonomia e di emancipazione delle donne vittime di violenza in condizione di povertà”. Certo l’Istituto nazionale di previdenza sociale ci ha messo più di un anno ad attivare il Fondo e a stilare le procedure per accedervi, ma certo lo strumento è positivo.
La non indipendenza economica dal proprio aguzzino è una delle ragioni che rendono difficile – spesso impossibile – alle donne vittime di violenza in ambito familiare a sottrarsi ed emanciparsi da chi le maltratta. La mancanza di lavoro, di una casa propria dove andare, sono ostacoli insormontabili, ed allora bene un contributo economico. Ma vediamo nel dettaglio cosa prevede la circolare. Il Reddito di libertà consiste in un “contributo economico, stabilito nella misura massima di 400 euro mensili pro capite, concesso in un’unica soluzione per massimo dodici mesi”.
È destinato alle donne vittime di violenza, con o senza figli, seguite dai centri antiviolenza riconosciuti dalle Regioni e dai servizi sociali nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza, al fine di contribuire a sostenerne l’autonomia. Destinatarie del contributo sono le donne residenti nel territorio italiano che siano cittadine italiane o comunitarie oppure, in caso di cittadine di Stato extracomunitario, in possesso di regolare permesso di soggiorno. Il modulo per la domanda è disponibile sul sito dell’Inps. Certamente l’istituzione del Fondo riconosce un problema, la mancata autonomia delle donne vittime di violenza, e prova dare risposte. Ma probabilmente si poteva fare di più.
“È stata finalmente approvata la circolare INPS che definisce i requisiti e le modalità per accedere al reddito di libertà, una misura a cui i centri antiviolenza hanno guardato positivamente, ben conoscendo le difficoltà delle donne che hanno subito violenza nel riprendere in mano la propria vita in autonomia”, afferma Antonella Veltri, presidente di D.i.Re. “Di fatto, però, si tratta di un intervento di facciata, se si considerano i 3 milioni di euro del Piano nazionale antiviolenza 2017-2020 che vi sono stati investiti: ne potranno beneficiare al massimo 625 donne in tutta Italia, quando sono oltre 20.000 ogni anno le donne accolte nei soli centri antiviolenza della rete D.i.Re, e circa 50.000 nel totale dei 302 centri antiviolenza contati dall’Istat nel 2018”.
Per Susanna Camusso, responsabile politiche di genere della Cgil, “è certamente positivo che sia adottato uno strumento che prova a rispondere alla necessità di autonomia economica delle donne vittime di violenza per consentire loro di emanciparsi. È la strada da seguire”. Per la dirigente sindacale, però, occorre estendere la misura. “Anche alle donne vittime di tratta. Sono extracomunitarie e ovviamente prive del permesso di soggiorno. E poi è necessario pensare a come aiutarle tutte le donne che fuggono da maltrattamenti a costruire un percorso che le faccia entrare nel mondo del lavoro. Solo una occupazione stabile e dignitosa può renderle davvero libere”.