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Il 25 maggio 1992, giorno dei funerali di Giovanni Falcone e delle vittime della strage di Capaci, Cgil, Cisl e Uil proclamano lo sciopero generale. Otto ore di sciopero in Sicilia e, alle 11, in concomitanza con i funerali, un’ora di sciopero nazionale “per sostenere un’urgente richiesta di giustizia e per esprimere sdegno e condanna per i criminali”.
Ma due mesi dopo, il 19 luglio, un altro ‘botto’ scuote Palermo. E non solo Palermo. Alle 16 e 58 una Fiat 126 imbottita di tritolo, parcheggiata sotto l’abitazione della madre di Paolo Borsellino, a Palermo, detona uccidendo il giudice e cinque agenti della sua scorta: Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Unico sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo, scampato alla strage perché al momento della deflagrazione stava parcheggiando uno dei veicoli della scorta. “Mentre ero girato con il viso per fare retromarcia, ho sentito un’ondata di calore infernale e poi il boato. Sono sceso dall’auto che era già in fiamme. Intorno a me era tutto buio”, racconterà.
Tra l’una e l’altra strage, però, qualcosa accade. Qualcosa si rompe nelle coscienze e nella società. Qualcosa comincia a cambiare. A farsi interpreti del bisogno di rottura morale e rivolta civile contro Cosa nostra sono Cgil, Cisl e Uil che un mese dopo Capaci, un sabato di giugno, organizzano una straordinaria mobilitazione nazionale contro la mafia, all’insegna dello slogan ‘L’Italia parte civile’.
“Il potere mafioso deve essere isolato nelle coscienze - sarà la richiesta delle Confederazioni contenuta in un documento diffuso in quei giorni - indebolito nelle sue connivenze con i settori inquinati delle istituzioni, della pubblica amministrazione, dell’imprenditoria, dei partiti”.
“Noi - diceva l’allora segretario generale della Cisl Sergio D’Antoni, illustrando l’iniziativa assieme a Bruno Trentin e Adriano Musi (della Uil) - vogliamo dare testimonianza a Falcone, determinando un moto popolare continuo e costante che sia di stimolo e pressione per tutti i poteri costituzionali”. “Vogliamo costruire un rapporto nuovo - aggiungeva Trentin - fra le forze di pubblica sicurezza e il cittadino: snodo importante per un reale presidio del territorio”.
La partecipazione alla manifestazione è così massiccia che migliaia di persone non riescono neppure a raggiungere piazza Politeama, punto di confluenza di cinque cortei. L’afflusso ininterrotto di manifestanti prosegue anche dopo gli interventi dei segretari generali. Pochissimi giorni prima Paolo Borsellino teneva il suo ultimo discorso.
“Ci sono tante teste di minchia - si racconta il giudice avrebbe voluto dire il giorno dei funerali di Giovanni Falcone, al quale sopravviverà solo due mesi - teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero… ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge”.
Il 23 giugno 1992 - nemmeno un mese prima del tragico attentato che gli costerà la vita - Paolo Borsellino pronunciava in memoria dell’amico e compagno di lavoro le bellissime parole che riportiamo. Parole profetiche, in un certo senso, da leggere con attenzione e sulle quali meditare anche oggi, forse soprattutto oggi.
Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che egli correva perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli si imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché mai si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto di amore verso questa sua città, verso questa terra che lo ha generato, che tanto non gli piaceva. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli siamo stati accanto in questa meravigliosa avventura, amore verso Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria a cui essa appartiene (…) Occorre dare un senso alla morte di Giovanni, della dolcissima Francesca, dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti tutti per noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera. Facendo il nostro dovere; rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia. Troncando immediatamente ogni legame di interesse, anche quelli che ci sembrano innocui, con qualsiasi persona portatrice di interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito; dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo.