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Il part time non può essere motivo di discriminazione delle donne nelle progressioni economiche. Lo ha stabilito, qualche giorno fa, la Corte di cassazione intervenendo su un ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate. Il caso da cui nasce questa sentenza sarà un faro nel campo delle discriminazioni di genere, e prende le mosse dal ricorso di un’impiegata part time dell’Agenzia che nella selezione interna per il passaggio a una migliore fascia retributiva era stata penalizzata in termini di punteggio rispetto ai colleghi full time.
Persi già il primo e il secondo grado di giudizio, l’Agenzia delle Entrate si è quindi rivolta alla Cassazione, che con la sua decisione fa chiarezza su due diversi punti: non può esserci alcun automatismo tra riduzione dell’orario di lavoro e riduzione dell’anzianità di servizio da valutare ai fini delle progressioni economiche e, dal momento che statisticamente il part time riguarda soprattutto le donne, quell’automatismo determina una discriminazione di genere.
Anzi, la Corte fa di più. Scrive testualmente che “svalutare il part-time ai fini delle progressioni economiche orizzontali significa, nei fatti, penalizzare le donne rispetto agli uomini con riguardo a tali miglioramenti di trattamento economico”. E anche “la preponderante presenza di donne nella scelta per il lavoro a tempo parziale è da collegare al notorio dato sociale del tuttora prevalente loro impegno in ambito familiare e assistenziale, sicché la discriminazione nella progressione economica dei lavoratori part-time andrebbe a penalizzare indirettamente proprio quelle donne che già subiscono un condizionamento nell'accesso al mondo del lavoro”.
Elementi che conosciamo bene: con servizi pubblici alle famiglie, asili nido, assistenza agli anziani e ai non autosufficienti in primis, che non soddisfano né gli standard di legge e nemmeno la domanda effettiva, segregate in settori professionali a retribuzioni più basse, e con una cultura diffusa che continua a considerare le donne come “naturali” care giver, per le italiane spesso il part time come l’abbandono del lavoro non è scelta ma obbligo.
Nelle stesse ore in cui veniva resa nota la sentenza, quest’analisi è stata confermata dall’Inps che ha presentato un’analisi dei divari di genere nel mercato del lavoro e nel sistema previdenziale realizzato sui propri dati su input del Consiglio di indirizzo e vigilanza.
Nel 2022, infatti, secondo l’Inps nei settori privati il 47,7% delle donne ha un contratto part time contro il 17,4% degli uomini con differenze ulteriori tra le aree del Paese che vedono maggiormente penalizzate le lavoratrici del Mezzogiorno, Calabria e Sicilia in testa. Part time spesso involontario, non scelto. Nel pubblico la differenza diminuisce ma resta preponderante per le donne rispetto agli uomini. Dinamiche che inevitabilmente hanno ripercussioni sulle retribuzioni annue e sugli assegni pensionistici in media inferiori a quelli maschili del 36%. In pratica, mentre l’importo medio mensile dei redditi da pensione di un uomo è di 1.932€, quello delle donne è di 1.416 €.
La strada per una riduzione delle discriminazioni femminili nel mondo del lavoro che si traduce spesso ostacoli a una effettiva autonomia, è ancora lunga. Fortunatamente la giurisprudenza, più che il legislatore, ogni tanto segna un colpo.
Esmeralda Rizzi, Ufficio politiche di genere Cgil