La violenza nei confronti delle donne ha molti volti. Stupro e femminicidio, certo. Sono le facce più cruente e distruttive, quelle che mirano ad annullare l’identità, ad appropriarsi della vita togliendola. Molestie e subornamento psicologico, e ancora svilimento e non considerazione. Ma se si riflette con attenzione anche l’esclusione o la segregazione dal e nel lavoro è una forma, assai subdola, di violenza. Non solo, l’esclusione dal lavoro o l’essere collocate in posizione con reddito basso rappresentano una doppia forma di violenza. Da un lato c'è l’esclusione dalla vita sociale, da un ambito che contribuisce alla determinazione dell’identità e il perpetuare la dipendenza economica da altri, da uomo. Dall’altro c'è la non indipendenza economica, che rende difficilissimo – se non impossibile – l’emanciparsi dalla violenza più tradizionale.
La disparità salariale tra donne e uomini, che nel nostro Paese viaggia tra il 20 è il 30 per cento, è una forma di violenza contro le donne. E in una società dove acquista valore ciò che “costa”, il messaggio cui il gender gap rimanda è che le lavoratrici “valgono” meno dei lavoratori.
Il Parlamento Italiano ha, finalmente, approvato la legge sulla parità salariale tra donne e uomini. Viene da dire: finalmente, sì, ma come è possibile che nel 2021 si saluti con soddisfazione l’approvazione di una norma già prevista dalla nostra Costituzione e che molte e molti di noi pensavano essere nei fatti già in vigore?
Nella realtà il differenziale tra lavoratrici e lavoratori viaggia, lo dicevamo, tra il 20 è il 30 per cento del salario e questa disparità si riflette sulle pensioni, sulle quali incide anche - ovviamente al ribasso – la discontinuità lavorativa delle donne. Come è possibile? Diverse sono le ragioni. Innanzitutto una antica ma mai superata “segregazione” professionale. Storicamente tutti i lavori a predominanza di manodopera femminile sono pagati meno. Le operaie tessili son pagate meno degli operai metalmeccanici, ad esempio, e si potrebbe proseguire. E poi inquadramenti, progressioni di carriera, gratifiche, part time involontari e via proseguendo hanno reso più povere le buste paga delle donne e troppo spesso senza che chi le percepisce – speriamo percepiva – si rendesse nemmeno conto della discriminazione. Avviene in tutti i campi, dal giornalismo al mondo dello spettacolo – gli attori sono pagati più delle attrici –, dalle professioni all’industria manifatturiera, per finire ai servizi. Allora è triste doverlo ammettere, ma una legge serviva, serve.
Ed eccola allora: approvata in via definitiva lo scorso ottobre dal Parlamento, introduce una serie di modifiche e integrazioni al Codice sulle pari opportunità tra uomo e donna con l’obiettivo dichiarato dal legislatore di contrastare il gap salariale e ridurre le discriminazioni di genere sul lavoro. Per realizzare quest’obiettivo, il legislatore introduce a partire dal 1 gennaio 2022 la Certificazione della parità di genere da cui deriva un punteggio premiale nella valutazione di progetti e bandi di gara e agevolazioni contributive; riduce da 100 a oltre 50 dipendenti il target delle aziende tenute a redigere il Rapporto sulla situazione del personale già previsto nel Codice delle PO, che certifica situazione del personale, carriere, retribuzione, ricorso a prepensionamenti, pensionamenti, cig, licenziamenti; estende la nozione di discriminazione (sul luogo di lavoro) anche al momento della selezione del personale, e all’organizzazione del lavoro nei modi e nei tempi; estende il criterio dell’equilibrio di genere nella composizione dei CdA, già previsto per le società quotate, anche alle società non quotate, controllate da pubbliche amministrazioni, costituite in Italia.
Secondo la confederazione di Corso d'Italia, “alcune delle misure adottate rispondono a suggerimenti che la Cgil aveva formulato su questo tema. In particolare l’estensione della platea delle aziende tenute a redigere il Rapporto sulla situazione del personale che di fatto viene richiesto a tutte le aziende oltre i 50 dipendenti”. Secondo Tania Scacchetti e Susanna Camusso, che hanno salutato l’approvazione della legge, “l’introduzione della Certificazione di parità risponde all’obiettivo di promuovere una diversa cultura aziendale e della parità attraverso un sistema esclusivamente premiante. In particolare alle aziende che abbiano ottenuto la Certificazione della parità di genere, viene riconosciuto un punteggio premiale per proposte progettuali e bandi di gara e per il 2022, vengono destinati un totale di 50 milioni di euro in misura non superiore all’1 per cento fino a un massimo di 50 mila euro annui quale esonero dal versamento dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro. Anche l’intervento sulla nozione di discriminazione appare interessante dal punto di vista enunciativo ma di difficile efficacia sotto il profilo concreto”.
E concludono le dirigenti sindacali: “La legge, con alcuni limiti di effettiva efficacia che dovranno trovare soluzioni correttive, ha tuttavia un indubbio valore politico perché si propone, in un Paese dalla ancora profonda cultura patriarcale, un tema di indubbia emergenza nel nostro Paese, quello di dotarsi di strumenti che possano intervenire per contrastare la disparità salariale che penalizza il lavoro delle donne”.
Insomma, una legge serviva e serve. Ma basterà? Se non cambia la cultura profonda, se le differenze non verranno percepite come arricchimento, se il lavoro di cura non verrà considerato come indispensabile alla riproduzione sociale oltre che a quella individuale, se molte donne non entreranno nel mondo del lavoro cambiandone logiche e meccanismi, la legge non basterà.