PHOTO
Una persona su 69 è in fuga nel mondo, tre su quattro provengono da Paesi dove gli effetti della crisi climatica sono una costante. Il dato lo fornisce il Global Trends 2024 dell’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, secondo il quale la popolazione in fuga è cresciuta dell’8 per cento in un anno, 8,8 milioni in più rispetto al 2022, raggiungendo 117,3 milioni di profughi.
Profughi senza protezione
“Nonostante queste evidenze, le migrazioni climatiche, cioè provocate da eventi estremi e disastri naturali, sono escluse dalle domande di asilo e di protezione internazionale – afferma Maria Marano, dell’associazione A Sud, autrice della sezione dedicata a questo tema del Dossier statistico 2024 del Centro studi e ricerche Idos, appena pubblicato –. E invece il fattore climatico dovrebbe avere un ruolo determinante nella valutazione delle cause di chi scappa, oggi più che mai. Non è solo questione di vita e di morte, ma anche di accesso a diritti fondamentali della persona: all’acqua, al cibo, all’istruzione”.
Crisi climatica ed eventi estremi
Gli spostamenti più numerosi sono quelli degli sfollati interni: il 56 per cento, ovvero 26,4 milioni, migra a seguito di eventi estremi e di disastri naturali, soprattutto alluvioni, tempeste, terremoti. I cambiamenti climatici a livello globale, quindi, sempre più rendono insicure intere regioni del Pianeta e singoli Paesi. E spesso gli Stati di origine di rifugiati, richiedenti asilo e migranti non sono sicuri non solo perché attraversati da conflitti ma anche per gli impatti devastanti della crisi ambientale, due fattori che nella maggior parte dei casi vanno di pari passo.
Manca la norma internazionale
Le previsioni future sono allarmanti. “Per questo i governi hanno il dovere di prendere atto che la mobilità umana forzata è strettamente legata alla crisi climatica che stiamo alimentando - dichiara Luca di Sciullo, presidente del Centro studi e ricerche Idos -. Così come deve essere un diritto riconosciuto chiedere protezione anche a causa di fattori climatico-ambientali, nella prospettiva di arrivare al riconoscimento dello status di rifugiato climatico a livello internazionale”.
Riconoscimento che tuttora manca. Capita che i tribunali di singoli Paesi accolgano le richieste di asilo e protezione tenendo conto anche del fattore ambientale, sentenze che creano precedenti, ma una norma generale e sovranazionale, invocata da tempo, ancora non c’è.
Italia a passo di gambero
In questo quadro l’Italia compie passi indietro. In poco più di un anno il governo Meloni ha ampliato la lista dei cosiddetti “Paesi d’origine sicuri”, un elemento determinante nella valutazione della vulnerabilità di chi chiede protezione: in pratica, chi viene da uno Stato considerato sicuro, affronta procedure accelerate di esame della domanda di asilo e protezione, che già è orientata al diniego. Non solo. Per rafforzare il valore della lista, con un decreto legge l’esecutivo l’ha resa norma primaria.
“Ampliare la lista risulta una scelta strumentale più che una valutazione oggettiva – si legge nel report Idos -. Questi Paesi, infatti, coincidono con le nazionalità di maggior arrivo o si tratta di Stati con i quali i governi gestiscono degli interessi. Nel caso italiano, è facile il richiamo al Piano Mattei per l’Africa”.
Egitto e Bangladesh Paesi sicuri
Nella lista vi figurano Paesi come l’Egitto, dove sono numerose le segnalazioni di gravi violazioni dei diritti umani, limitazioni delle libertà e altre pratiche repressive, e il Bangladesh, del quale non viene considerata la vulnerabilità ambientale dovuta ai cambiamenti climatici: nel 2023 circa 1,8 milioni di persone sono state costrette a migrare internamente a causa di eventi meteorologici estremi, posizionando così il Paese tra i cinque con più sfollamenti interni a causa del clima, divenuto per loro una vera e propria minaccia esistenziale.
Nessuno è al sicuro
“Oggi è difficile isolare un’unica causa che spinge una persona a migrare, perché c’è una forte interconnessione tra crisi climatica, guerre, povertà, diritti umani – riprende Marano -. È proprio perché dobbiamo fare i conti con questa complessità che occorre mettere la questione climatica al centro, quando si fissano i parametri che valutano la vulnerabilità di chi scappa. Stiamo attraversando una crisi climatica senza precedenti: secondo l’Ipcc, il gruppo intergovernativo sui cambiamenti climatici delle Nazioni Unite, il 40 per cento della popolazione mondiale vive in aree a rischio climatico, che si trovano principalmente nel Sud del mondo, quindi nei Paesi più poveri. E se si pensa a quello che accade in Italia, alle alluvioni che hanno sconvolto l’Emilia Romagna, possiamo dire che nessuno si può più sentire al sicuro”.