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L’Istat ci ha da poco raccontato dei sogni, dei desideri, la multiculturalità e il rapporto con la digitalizzazione dei nostri giovani, coloro che hanno tra gli 11 e i 19 anni. Sono solamente l’8,7% della popolazione italiana e progressivamente in diminuzione, ma sono il futuro. Nell’indagine “Bambini e ragazzi” dell’Istituto di statistica si legge che stiamo parlando di una gioventù multietnica, perché tra i residenti in Italia della suddetta fascia d’età il 9,7% è composto da stranieri, con un’incidenza più elevata di quella totale degli stranieri sull’insieme della popolazione (9%).
Nel 59,5% dei casi si tratta di stranieri nati in Italia, l’11,7% è nato all’estero e arrivato nel Paese prima dei 6 anni, il 17% è immigrato in età scolare e l’11,8% è arrivato a 11 anni o più, dati che ripropongono l’argomento relativo alla cittadinanza e al suo ottenimento. Interessante anche notare che oltre il 6% dei ragazzi italiani tra gli 11 e i 19 anni possiede una doppia cittadinanza e l’8% ha uno dei due genitori nato all’estero.
La sociologa Chiara Saraceno, tempestivamente intervenuta sui dati Istat, da noi interpellata inizia con il precisare “che i giovani sarebbero ancora di meno se non ci fossero gli stranieri immigrati e la nostra società sarebbe ancora più vecchia. Quel poco di equilibrio che riusciamo a mantenere tra le generazioni è in parte dovuto al fatto che abbiamo degli stranieri che sono mediamente più giovani e quindi contribuiscono anche a superare il cosiddetto inverno demografico”.
La diversità è una risorsa, non un problema
Per Saraceno non si può sempre genericamente parlare di stranieri ed è invece necessario prendere atto anche delle diversità all’interno di questo insieme. “Leggendo il rapporto – prosegue – si vede che la cittadinanza italiana la vorrebbero avere soltanto nel 50% dei casi, tra questi gli appartenenti ad alcune etnie toccano il 70-80%, mentre, ad esempio, i cinesi si attestano attorno al 20%. Questo dipende da un fattore culturale. Alcuni di loro vogliono avere la doppia cittadinanza, mantenendo anche quella di origine, ma questa non è disaffezione all’Italia, è esattamente quello che fanno gli italiani quando emigrano, ad esempio, in Germania. Alcuni poi desiderano, in un futuro, tornare al proprio Paese. Poi, esattamente come accade per i ragazzi italiani, c’è chi vuole andare a vivere fuori dall'Italia, in un Paese che pensano sia più accogliente, che dia più chance di vita e di opportunità di riconoscimento”.
La sociologa tiene a sottolineare che i giovani stranieri che sono tra noi costituiscono una dimensione oramai strutturale della nostra popolazione e “dobbiamo ragionare sul fatto che il futuro della nostra popolazione sarà questo, per quanto si mettano vincoli a immigrazione e conseguimento della cittadinanza. Una popolazione composita è una risorsa. Quindi questi giovani, come i nostri, dobbiamo trattenerli, invogliarli a restare, dare gambe ai loro desideri e alle loro speranze e offrire loro condizioni di vita ragionevoli, non scoraggiarli”.
È importante anche vedere cosa i giovani immigrati intendono per cittadinanza: “Pensano che sia seguire le leggi, un fattore che invece non è mai nominato per primo dagli italiani. Contano leggi, tradizioni e cultura: questi giovani sono molto ragionevoli e saggi, più degli adulti”.
Ius soli o scholae?
Il Censis ci dice che il 72,5% degli italiani è favorevole al conferimento della cittadinanza ai minori nati in Italia da genitori stranieri e il 76,8% lo è alla concessione della cittadinanza agli stranieri arrivati in Italia prima dei 12 anni che abbiano frequentato un percorso formativo nel nostro Paese. Sono dati ai quali non è però seguita l’approvazione di norme che prevedano lo ius soli e nemmeno lo ius scholae.
Secondo Saraceno “lo ius scholae potrebbe essere un buon compromesso, ma sarebbe il minimo sindacale. Confermerebbe una formazione scolastica avvenuta in Italia, una lunga permanenza e un progetto che è del ragazzo e ancora prima della famiglia. Questa dovrebbe essere la norma e dovrebbe valere anche per gli adulti che decidono di fare un percorso scolastico di 5 anni. Il problema è che nessun governo sino a ora è riuscito ad introdurlo” a causa di timori di carattere elettorale.
“È ovvio – conclude Saraceno – che alcune leggi debbano essere introdotte da un discorso pubblico, per preparare i cittadini a novità che diventerebbero poi senso comune. Se fa una grande battaglia pubblica sulla cittadinanza, un governo può inizialmente perdere consensi, ma poi riguadagnarli. Servirebbe coraggio. Le resistenze culturali sono forti, ma è interessante che invece i ragazzi italiani siano favorevoli, ed è venuto il momento che dicano: ‘Su queste cose abbiamo diritto di parola, perché è del nostro futuro che stiamo parlando’, questo dovrebbero dire”.