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L’11 dicembre del 1969 il Senato approva in prima lettura la legge 300, meglio nota come Statuto dei lavoratori (votano a favore del provvedimento i partiti di centro-sinistra e i liberali. Si astengono - con opposte motivazioni - Msi da una parte, Pci, Psiup e Sinistra Indipendente dall’altra). Il 14 maggio del 1970 la Camera dei deputati - con 217 voti favorevoli, 10 contrari e 125 astenuti - approva definitivamente la Legge nel testo del Senato dopo che, su richiesta del nuovo ministro del Lavoro Donat Cattin, tutti gli emendamenti (tranne quelli del Pli) saranno ritirati. Il 20 maggio il testo è pubblicato sulla Gazzetta ufficiale divenendo a tutti gli effetti legge dello Stato.
Affermava Luciano Lama, da pochi mesi segretario generale della Cgil: “Lo Statuto dei diritti è frutto della politica unitaria e delle lotte sindacali: lo strumento non poteva che essere una legge, ma la matrice che l’ha prodotta e la forza che l’ha voluta è rappresentata dal movimento dei lavoratori e dalla sua azione organizzata. Anche soltanto qualche anno fa, nelle condizioni di divisione che allora esistevano fra i sindacati e fra i lavoratori, lo Statuto non avrebbe potuto essere, perché la concorrenza fra le organizzazioni avrebbe persino impedito il convergere degli orientamenti sulla conquista di diritti nella fabbrica, diritti che per essere tali e pienamente goduti, devono valere allo stesso modo per tutti. Certo, anche lo Statuto dei diritti presenta dei limiti; ma esso è pur sempre un passo, un lungo passo avanti rispetto alle condizioni del passato e rende finalmente operanti principi che finora, forse già perfetti in linea teorica, non avevano però offerto al movimento sindacale una possibilità di reale godimento. Oggi possiamo partire, per andare ancora più avanti nella fabbrica e nella società, da questi nuovi punti più avanzati”.
“La Costituzione entra in fabbrica” - scriveva l’Avanti - alla fine, però, di un lungo e a tratti accidentato percorso. Nel secondo dopoguerra è Giuseppe Di Vittorio a parlare per primo ed esplicitamente della necessità di uno Statuto dei diritti - già auspicato da Filippo Turati nel 1919 - che portasse la Costituzione dentro le fabbriche e nei luoghi di lavoro. Affermava il segretario generale della Cgil nel 1952:
Abbiamo il dovere di difendere le libertà democratiche e i diritti sindacali che sono legati alla questione del pane e del lavoro; abbiamo il dovere di difendere i diritti democratici dei cittadini e dei lavoratori italiani, anche all’interno delle fabbriche. In realtà oggi i lavoratori cessano di essere cittadini della Repubblica italiana quando entrano nella fabbrica. (…) I padroni non considerano il lavoratore un uomo, lo considerano una macchina, un automa. Ma il lavoratore non è un attrezzo qualsiasi, non si affitta, non si vende. Il lavoratore è un uomo, ha una sua personalità, un suo amor proprio, una sua idea, una sua opinione politica, una sua fede religiosa e vuole che questi suoi diritti vengano rispettati da tutti e in primo luogo dal padrone. È per questo che noi pensiamo che i lavoratori debbono condurre una grande lotta per rivendicare il diritto di essere considerati uomini nella fabbrica e perciò sottoponiamo al congresso un progetto di “Statuto” che intendiamo proporre, non come testo definitivo, alle altre organizzazioni sindacali (perché questa esigenza l’ho sentita esprimere recentemente anche da dirigenti di altre organizzazioni sindacali), per poter discutere con esse ed elaborare un testo definitivo da presentare ai padroni e lottare per ottenerne l’accoglimento e il riconoscimento solenne.
Ma le parole di Di Vittorio si infrangono contro la dura realtà del primo decennio del dopoguerra. Il 1960 sembra iniziare nel peggiore dei modi con il governo Tambroni che provoca e reprime. Proprio a partire dalle proteste popolari e antifasciste avviate a Genova nel mese di giugno 1960, però, il quadro generale dell’Italia cambia velocemente e gli equilibri politici conoscono un’evoluzione con la nascita dei governi di centro-sinistra. Nel dicembre del 1963 si ha la formazione del primo governo presieduto da Aldo Moro.
Nel discorso alle Camere, il presidente del Consiglio dichiara il proposito di definire, sentite le organizzazioni sindacali, uno Statuto dei diritti dei lavoratori al fine di garantire dignità, libertà e sicurezza nei luoghi di lavoro (“Nenni - scrive Giorgio Benvenuto - pone ad Aldo Moro nel 1963, tra le condizioni del Psi per procedere alla realizzazione del governo organico di centrosinistra, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori”).
Nel febbraio 1964 la segreteria della Cgil formalizza con una lettera a Pietro Nenni il proprio giudizio positivo sullo Statuto, ribadendo la richiesta che la legge garantisca i diritti costituzionali dei lavoratori, la giusta causa nei licenziamenti e il riconoscimento delle commissioni interne.
Intanto Gino Giugni, incaricato direttamente da Nenni di redarre con il giurista Tamburrano tre disegni di legge su Commissioni interne, giusta causa e diritti sindacali, inizia la sua collaborazione con il Governo ed entra a far parte della Commissione nominata dal ministro del lavoro Bosco per predisporre un progetto di legge sui licenziamenti approvato dal Parlamento 15 luglio 1966 (la legge 604 sui licenziamenti prevederà la giusta causa e l’obbligo di un indennizzo monetario, non quello della riassunzione, in caso di licenziamento ingiustificato). Probabilmente l’iter della legge avrebbe avuto un andamento molto più accidentato, se nel frattempo non fosse scoppiato nel Paese il Sessantotto. In questo contesto di straordinaria mobilitazione collettiva e di eccezionale fermento culturale il dibattito sullo Statuto si accende.
Dopo i terribili fatti di Avola prima, Battipaglia poi, il ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini (già gravemente malato) forza i tempi di approvazione della legge con una febbrile attività chiamando Gino Giugni a presiedere una Commissione con l’incarico di elaborare in tempi brevi la proposta da sottoporre alle organizzazioni sindacali.
Intanto la Commissione lavoro del Senato prepara e il Consiglio dei ministri approva il disegno di legge da presentare in Aula rafforzando la parte relativa ai diritti individuali dei lavoratori. In particolare viene introdotto l’articolo 18 che sancisce la giusta causa nel licenziamento individuale, attribuisce all’imprenditore l’onere della prova di fronte al giudice, impone - per le aziende con più di quindici dipendenti - l’obbligo di reintegro nel caso di licenziamento giudicato illegittimo. Non passa, invece, il riconoscimento giuridico delle commissioni interne e, tanto meno, dei nuovi organismi di base (i consigli di fabbrica) che si stanno formando nelle lotte aziendali.
Il 24 giugno 1969 il disegno di legge governativo viene presentato in Senato. In un'intervista rilasciata a l’Avanti! dello stesso giorno diceva Gino Giugni:
Tra le due parti del progetto che riguardano rispettivamente i diritti dei lavoratori e la presenza del sindacato in fabbrica, esiste innanzitutto una stretta connessione. La nostra tesi infatti è che la creazione di un clima di rispetto della dignità e libertà del lavoratore non può derivare soltanto da una dichiarazione di questi principi, anche quando ad essa, come nel caso nostro, si accompagnino adeguate sanzioni. In realtà, come l’esperienza insegna, la sanzione più efficace riposa nella capacità di contestazione e di innovazione del sindacato e perciò occorre che il sindacato sia presente nell’azienda. La prima parte del progetto riguarda la garanzia della libertà di manifestazione del pensiero, naturalmente in forme che non impediscano lo svolgimento del lavoro; vengono inoltre eliminate le pratiche di controllo fiscale, le quali sono, purtroppo, ignote dove soprattutto il sindacato è più debole. Tali sono le cosiddette polizie private, le ispezioni personali che potranno essere ammesse solo quando ne ricorre la necessità, e con tutte le garanzie del caso, i controlli per assenza malattia che vano oltre la necessità di reprimere gli abusi, i controlli a distanza con apparati televisivi o di altro tipo che sottopongono il lavoratore ad una vigilanza continuativa, l’irrogazione arbitraria di sanzioni disciplinari, per le quali sono introdotte soprattutto speciali garanzie procedurali. Per la parte concernente più direttamente il sindacato, basti dire che, in pratica, ogni sindacato rappresentativo potrà creare la propria rappresentanza a livello aziendale con la semplice indicazione dei lavoratori o degli organismi a tal fine destinati; per questi saranno operative varie garanzie: diritto di indire assemblee e referendum, di disporre dei locali (nelle imprese con più di 300 dipendenti) e di permessi retribuiti; mentre sarà operativa una speciale tutela contro i licenziamenti e i trasferimenti per rappresaglia. La creazione di un ampio spazio per il sindacato nell’azienda è un’esigenza che si è manifestata in tutti i paesi europei e il diritto sindacale italiano con questa legge apparirà tra i più avanzati se non il più avanzato in senso assoluto. A maggiori poteri si accompagnano naturalmente maggiori responsabilità; ma credo che i sindacati italiani siano in grado di assolvere queste ultime; mentre un imprenditore moderno non può non accettare di buon grado il quadro di relazioni industriali che estende l’area del dialogo e quindi della contrattazione.
Hanno provato a scardinarlo. Gli hanno dato un colpo terribile con l'abrogazione dell'articolo 18 ma oggi, nonostante tutto e tutti, lo Statuto dei lavoratori compie cinquantadue anni. Buon compleanno, Statuto.