“Alla fine capii che quello era il salto da fare: uscire dalla fabbrica e lottare per la collettività”. Dice così una delle protagoniste della serie di podcast Amatissime. Una frase semplice che inaugura uno snodo definitivo: quello del passaggio delle lotte dalla fabbrica alla città.

Dalle rivendicazioni per migliori condizioni di lavoro a quelle per l’autoderminazione delle donne e migliori condizioni di vita. È così che nel decennio che segue l’autunno caldo del Sessantanove, la rivendicazione di maggiori diritti e migliori condizioni nei luoghi di lavoro si salda alla mobilitazione per l’ampliamento dei diritti sociali.

La vertenza sulle pensioni inaugura il Sessantotto italiano, mentre nel novembre Sessantanove lo sciopero generale sulla casa ottiene un grande successo a livello nazionale. Servizi sociali, asili (la legge che li istituisce è del 1971 così come la legge di tutela delle lavoratrici madri), trasporti e scuola, sono le principali rivendicazioni “generali” del periodo, che ritornano negli slogan delle manifestazioni che attraversano le strade delle città italiane.

La mobilitazione delle maestranze del settore tessile è esemplare nell’interpretare tale nesso. Nelle piattaforme rivendicative aziendali infatti viene richiesto che l’1% del monte salari pagato dall’azienda venga dirottato dall’impresa verso l’amministrazione comunale, come una “dotazione sociale” per la costituzione di un fondo di finanziamento e implementazione dei servizi sociali.

Le donne volevano riappropriarsi della propria soggettività: autodeterminarsi come soggetti autonomi, uscire dall’oppressione sociale. Non solo madri, mogli, figlie. Ma donne, ognuna con aspirazioni diverse accomunate dalla necessità di una liberazione profonda dalle gabbie semantiche e reali nelle quali erano confinate.

Le lotte operaie del periodo colgono così il legame che esiste tra i meccanismi di sfruttamento in fabbrica e il tema della riproduzione sociale e ne fanno immediato terreno di battaglia politica e sindacale.

In tale senso è chiarissimo il trait d’union che viene a costruirsi tra le rivendicazioni aziendali e l’interesse generale e il largo consenso che circonda queste battaglie.

Perché le operaie tessili difendendo il loro posto di lavoro e cercando di innalzarsi oltre la propria condizione materiale, pongono istanze di rinnovamento e di miglioramento di tutta la società.

E non lo fanno per interposta persona, sono interpreti esse stesse di questa fase, dirigendo in prima persona le grandi vertenze sul territorio: sono donne giovani, senza esperienza politico sindacale alle spalle, che si formano all’interno delle lotte stesse, con paure, timori, spesso senza il sostegno dei familiari. Ma la diga si è ormai rotta, l’acqua scroscia con impeto e non trova argini a fermarla, lasciando emergere una nuova soggettività femminile fino ad allora rimasta silente che pone anche il sindacato davanti alla necessità di trasformarsi nelle sue modalità di azione e di mettere al centro della discussione nuovi temi.

Appare inoltre ormai inevitabile come in un'ottica di cambiamento la condizione di lavoro e di sfruttamento dentro l’azienda non possa rimanere scollegata dalla divisione del lavoro all’interno della famiglia: “stirare, cucinare, lavare, è il nostro riposare” è uno slogan che possiamo leggere nei cartelli delle manifestazioni di quel periodo.

(Manifestazione per l’8 marzo, Reggio Emilia, 1977. Fototeca della Biblioteca Panizzi, Fondo UDI Reggio Emilia).

E più in generale diventa impossibile ignorare i lacci e i lacciuoli che da ogni parte imprigionano la donna in un ruolo sociale che presenta ancora tratti marcatamente patriarcali e tradizionali.

Le lotte sociali si saldano definitivamente in quegli anni con le istanze di emancipazione e liberazione femminile: diritto alla partecipazione delle donne nella vita politica e sindacale, rivendicazione di servizi sociali, contrasto alla disoccupazione crescente si intrecciano ai temi della cosiddetta “questione femminile”, per costruire una società che garantisca riconoscimento delle differenze di genere e allo stesso tempo l'uguaglianza dei diritti e del loro esercizio. Istanze che sfociano nelle grandi battaglie del decennio ’70 sull’aborto, il divorzio e la parità di trattamento economico tra uomo e donna nel rapporto di lavoro.

Istanze ma soprattutto disparità che a distanza di cinquant’ anni si ripropongono in rinnovata salute, in parte uguali in parte diverse, nella società di oggi. Per alcuni aspetti forse più insidiose ora che allora perché meno ruvide e schiette ma più subdolamente imbellettate.

Istanze che hanno bisogno di parlare anche alle donne e agli uomini che siamo oggi, e che ci ricordano, impegnandoci profondamente, che ogni tempo e ogni storia ha le sue Amatissime e che il testimone ora è passato a noi.

 

Il conflitto sociale e la comunità operaia di lotta

Ascoltando le testimonianze delle protagoniste delle vertenze di fabbrica che la mostra e i podcast hanno raccontato emerge come le esperienze di lotta e conflittualità, al contempo oggetto di riflessione politico-sindacale e di mobilitazione, che attraversano i decenni Sessanta e Settanta, si sviluppano attorno a tre principali nuclei rivendicativi: il miglioramento delle condizioni e degli ambienti di lavoro; la difesa dell’occupazione e il contrasto al decentramento produttivo;  l’applicazione del Contratto nazionale di lavoro e dei diritti sanciti dallo Statuto dei lavoratori del 1970.

Le rivendicazioni operaie di quel periodo riguardano temi come l’aumento dei salari sganciato dall’aumento della produttività, il contrasto al cottimo, i tempi e i ritmi di lavoro che pesano sulle condizioni di vita fino a schiacciarle. Assumono così sempre maggiore rilevanza i temi della salute e dell’ambiente di lavoro in fabbrica, fino a sviluppare vere e proprie inchieste che sono il viatico per quella che sarà la medicina del lavoro all’interno delle aziende.

Battaglie che caratterizzano trasversalmente tutta la fase di lotta per i rinnovi e per il riconoscimento dei contratti nazionali di lavoro del settore tessile, nelle organizzazioni sindacali e nei consigli di fabbrica, per la concreta applicazione dei diritti sanciti dallo Statuto. A tale proposito è emblematica la lunga lotta delle maestranze del gruppo Max Mara rispetto a quella che emerge come politica marcatamente antisindacale dell’azienda.

Anche le vicende internazionali hanno un riverbero locale e a seguito dello shock petrolifero del 1973, si registra una crisi nel settore industriale italiano, che investe prepotentemente il settore tessile: già nella prima metà degli anni Settanta si sviluppano processi di ristrutturazione e decentramento produttivo che spesso aprono la strada ai licenziamenti. Da quel momento molte operaie che perdono il posto di lavoro vengono impiegate nel settore metalmeccanico, fino ad allora appannaggio maschile. La reazione operaia dentro la “crisi” per la difesa dell’occupazione e la continuità produttiva degli stabilimenti è durissima, fino a mettere in campo forme di conflittualità che arrivano all’occupazione degli stabilimenti come nei casi di Bloch, Confit e Maska.

Un elemento di grande originalità di questa fase di conflitto sociale è rappresentato da quella che è stata chiamata la costruzione della “comunità operaia di lotta”.

Centrale qui è il tema delle solidarietà. Solidarietà che non è elemento di natura ma processo di costruzione e consapevolezza. E’ così all’interno del mondo operaio, dove le istanze del comparto tessile si saldano all’iniziativa di altri settori (metalmeccanico e ceramico in primis), si amplia il processo di unità di azione dei sindacati di settore - passando attraverso l’esperienza dei consigli di fabbrica - fino alla costituzione della Fulta -Federazione unitaria lavoratori tessili e abbigliamento.

Inoltre, la tensione positiva che le lotte riescono a generare nel tessuto cittadino, che coglie la forza propulsiva di rivendicazioni che escono dai perimetri delle fabbriche, si espande passando dagli esercenti nei quartieri, dai soggetti istituzionali e la rappresentanza politica e associativa (Partito Comunista, Fgci e Unione Donne Italiane) e, infine, arriva a intrecciarsi con il mondo della cultura: Dario Fo, Lucio Dalla, Gli Intillimani e il Living Teather sbarcano in città a fianco delle lotte delle operaie tessili di quel periodo.

(Lucio Dalla concerto dentro alla tenda della Bloch in Piazza della Vittoria, Reggio Emilia, 6 novembre 1976. Archivio fotografico Camera del Lavoro di Reggio Emilia).

“La città unita per salvare la Bloch” è infatti lo slogan che campeggia sulla tenda issata nel centro di Reggio Emilia, a testimonianza della capacità di rompere l’isolamento all’interno nel quale rischiano di essere ricondotti i conflitti industriali e della capacità di attribuire significati generali a quelle battaglie che nascono all’interno di contesti aziendali e settoriali.

È in questa capacità di spaziare dal particolare all’universale la forza delle lotte di quegli anni; nella convinzione di spendersi per una società più giusta e nella determinazione delle protagoniste e dei protagonisti che hanno avuto il coraggio, anche tra enormi difficoltà,  di portarle avanti.

Lotte che sono storia recente eppure quasi di un altro mondo: un salto temporale che pare però in perpetua connessione, animato da un senso di riscatto, di ricerca di quel benessere individuale che per essere tale deve essere collettivo, che se pure oggi appare sempre più arduo praticare rimane difficile negare come non possa essere altrimenti che così.