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Anche la Corte costituzionale si aggiorna e finalmente nei propri atti non si parlerà soltanto di signori giudici, redattori e relatori ma anche di signore giudici, relatrici e redattrici. Un cambiamento del linguaggio formale che corrisponde a un cambiamento sostanziale avvenuto 28 anni fa, quando Fernanda Contri venne eletta giudice della Corte Costituzionale, prima e unica donna durante i nove anni del suo mandato.
Nel tempo la presenza femminile tra i componenti della Consulta è progressivamente aumentata anche se non è mai stata paritaria. Nel 2019 la Corte ha poi avuto la sua prima donna presidente, Marta Cartabia, seguita l’anno scorso da Silvana Sciarra recentemente sostituita da Augusto Barbera che ha varato la riforma degli atti mettendo fine alla discriminazione lessicale delle donne.
In Italia la legge che riconobbe alle donne la possibilità di accedere alla magistratura risale al 1964, ma rileggere le parole e gli stereotipi sessisti che venivano agitati per cercare di bloccarla dicono molto non solo di quel tempo ma, a ben vedere, anche del nostro: “La donna è fatua, è leggera, è superficiale, emotiva, passionale, impulsiva, testardetta anzichenò, approssimativa sempre, negata quasi sempre alla logica, dominata dal “pietismo”, che non è la “pietà”; e quindi inadatta a valutare obiettivamente, serenamente, saggiamente, nella loro giusta portata, i delitti e i delinquenti”, scriveva l'allora presidente onorario della Corte di cassazione Eutimio Ranelletti.
Le parole sono importanti perché certificano la realtà, quel che non viene detto non è, e perché creano pensiero. Il maschile universale, il parlare declinando esclusivamente al maschile soprattutto i sostantivi professionali con l'idea che ricomprenda uomini e donne o che magari indichi solo un incarico, una professione, cancella di fatto un cambiamento nell’organizzazione sociale e familiare ormai avvenuto da tempo: negli anni e con fatica, le donne hanno conquistato il diritto ad esercitare qualunque professione e a ricoprire qualsiasi incarico, anche quelli considerati più “nobili” e a loro a lungo preclusi, come la magistratura o la presidenza del consiglio.
Per costruire una società più equa occorre abbattere pregiudizi e stereotipi e certificarlo anche utilizzando un linguaggio corretto e non sessista che, dove possibile, declini al femminile professioni e incarichi, proprio come ha finalmente deciso anche la Corte costituzionale.
Esmeralda Rizzi, Area Politiche di genere Cgil