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Analizzando i dati sui consumi dei cittadini, prevalentemente si cita la crescita delle vendite in valore. Una più attenta lettura – però - indica come questa crescita sia frutto sostanzialmente dell’aumento dei prezzi, perché i volumi di vendita (cioè la concreta quantità di prodotti acquistati) stanno calando.
Da qualche tempo, oltre al continuo aumento del costo dell’energia, si segnala che l’aumento dei prezzi del cosiddetto “carrello della spesa” è superiore al dato medio inflattivo, e che i volumi di acquisto dei beni alimentari che ne fanno parte calano (negli ultimi tre mesi consecutivamente). Nell’ultimo anno (agosto 2021-2022) il volume dei beni alimentari acquistati è calato del 3,5% a fronte di un valore delle vendite aumentato del +6,8%.
Le ricadute economiche
Sempre ad agosto, ultimo dato disponibile, si registrano anche prime diminuzioni delle vendite in valore, quindi il problema sta aumentando e accelerando. Quando si arriva a questo punto e le previsioni per i prossimi mesi sono quelle di un ulteriore rallentamento dell’attività economica fino a una possibile recessione, deve scattare un forte allarme sulla condizione del Paese e sullo stato di difficoltà delle persone di cui il consumo dei beni di prima necessità è una cartina di tornasole che, se non risolta, risulterà contemporaneamente uno degli elementi che peggiorerà la situazione economica per l’alta incidenza dei consumi finali sulla congiuntura del Paese. Sappiamo da tutte le indagini effettuate su questo fenomeno durante gli altri periodi di crisi che il calo degli acquisti in quantità è l’ultimo elemento che le famiglie adottano, dopo aver messo in atto tutte le altre strategie di contenimento possibili.
Anzitutto la ricerca dei prezzi più bassi e, non a caso, i discount tornano ad essere la tipologia di esercizi che registra i maggiori aumenti di vendite. In secondo luogo, una forte attenzione a evitare gli sprechi. Poi si passa alla diminuzione della qualità dei beni acquistati verso quelli a minor costo. Precedenti ricerche, anche della Fondazione Di Vittorio, hanno sempre individuato cambiamenti nei processi di acquisto fra tipi di carne, di olio, di latte, ecc.; un accentuato calo dei consumi di prodotti non considerati più accessibili per le risorse a disposizione come dolci, acqua minerale, ecc. Questo andamento somma più problemi contemporaneamente.
Meno attenzione alla qualità
Il budget medio mensile delle famiglie per spesa alimentare si sta pericolosamente abbassando. Federconsumatori stima che allo stato dell’attuale andamento inflattivo l’aggravio di spesa di ogni famiglia ammonterebbe a +621 euro annui nel solo settore alimentare, facendo probabilmente scendere sotto la soglia dei 400 euro mensili (stime Fdv di circa 450 euro mensili nel 2018) il budget medio di ogni famiglia.
Questo causerà nel valutare cosa è più importante nell’acquisto di un prodotto, il rallentamento di alcuni parametri positivi che si stavano affermando come: produzione e materie prime italiane, filiere di qualità e sicurezza, salvaguardia dei diritti dei lavoratori rispetto alla semplice notorietà del prodotto. Queste tendenze saranno in gran parte superate dalla variabile prezzo. Un problema per le persone, ma anche un problema altrettante grande per un Paese che ha nella produzione alimentare di qualità uno dei punti di forza del Made in Italy.
Scende la propensione al risparmio
Infine, inizia a diminuire, perché utilizzati per consumi, anche la quantità dei risparmi accumulati. Prima di arrendersi a cali troppo consistenti nella quantità di generi essenziali da acquistare, si intacca anche il risparmio (per chi lo possiede) e infatti nell’ultimo trimestre la propensione al risparmio è scesa di -2,3% e nel confronto annuale del -4,5%. Penso non serva aggiungere altro per affermare che abbiamo varcato la soglia di guardia, sapendo che la percentuale media di calo degli acquisti prima richiamata è molto diversa per la diversa capacità economica delle famiglie.
L’aumento dei prezzi dei beni e servizi essenziali colpisce in misura maggiore chi ha redditi più bassi, infatti i consumi dei due quintili più ricchi sono diminuiti poco o niente mentre quelli più poveri molto più della media. L’alimentazione, o meglio, la riduzione della spesa alimentare, è oggettivamente una delle cause primarie di insoddisfazione e di proteste anche radicali, in ogni caso è sempre fonte di pessimismo e di calo della fiducia nel futuro.
Se i salari perdono valore
Tutto questo al netto degli altri rincari che riguardano non solo in modo macroscopico le bollette ma la quasi totalità dei prodotti. L’aumento dell’inflazione genera una riduzione del potere d’acquisto dei salari e delle pensioni con evidenti ricadute sui consumi delle famiglie che, a loro volta, si riflettono anche sulle scelte di investimento delle imprese spingendo, quindi, verso una contrazione della domanda.
Più che interessarsi – dunque - di quanto l’inflazione faccia aumentare le entrate fiscali, sarebbe necessario ragionare di come tutelare su questi aspetti fondamentali le famiglie, su come difendere i livelli occupazionali e su come redistribuire profitti abnormi e surplus fiscali. Seguendo le proposte della piattaforma sindacale su bollette, fisco, lavoro, sviluppo, politiche industriali e welfare, sulle scelte da adottare in Italia e in Europa.
Fulvio Fammoni, presidente Fondazione Di Vittorio Cgil