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“Scommettere sull'autonomia scolastica è importante: un governo vicino al territorio è l’unico modo per rispondere alle esigenze del territorio stesso. Ma bisogna che l'autonomia abbia le risorse necessarie per agire”. Così Giuseppe Bagni, presidente del Cidi (il Centro d’iniziativa democratica degli insegnanti) e membro del Cspi, il Consiglio superiore della pubblica istruzione, commenta le ultime disposizioni del governo sulla ripartenza a settembre.
Il governo a questo proposito ha però annunciato lo stanziamento di un miliardo in più, non basta?
È un investimento che sarebbe stato adeguato in una situazione ordinaria, ma totalmente insufficiente in una situazione di emergenza sanitaria come quella attuale. Questa cifra è nulla, briciole rispetto agli investimenti fatti per il mondo economica: la scuola resta sempre una, per così dire, “priorità secondaria”. E credo che senza i movimenti di piazza che ci sono stati in questi giorni non ci sarebbe stato neanche questo. Con ciò non dico che sia inutile, così come è importante l’assunzione di 50.000 docenti in più a tempo determinato. Poiché i concorsi non portano personale aggiuntivo, che è invece necessario per operazioni come sdoppiamento di classi e così via. Nelle linee guida, rispetto alla bozza iniziale, c’è poi un altro passaggio molto importante.
Quale?
Nella precedente versione la responsabilità sugli studenti poteva andare anche agli operatori del terzo settore, se l’alunno veniva portato in un teatro, un museo, un archivio. Una cosa grave: una vera e propria delega. Questo aspetto è cambiato: la responsabilità resta in capo alla scuola e agli insegnanti: si tratta di una compresenza, non più di una delega in toto.
Siamo a luglio, ce la si farà a fare tutto in tempo per settembre?
Questo è l’errore più grave che è stato fatto. Credo che questo ritardo sia difficilmente colmabile: come faranno le scuola in due mesi e con agosto di mezzo a riorganizzare completamente la loro attività e la loro organizzazione?
Che succederà a settembre?
Mi preme sottolineare una cosa. Sento proclami molto altisonanti: sarà la scuola del cambiamento, si approfitterà dell’emergenza per cambiare completamente il sistema. Ma io diffido di un’impostazione simile: certamente questo deve essere un momento di riflessione importante, ma le grandi riforme non si fanno in emergenza. Quando si sta in emergenza, si pensa a come uscirne. Noi del Cidi siamo preoccupati per eventuali soluzioni improvvisate adottate sulla spinta emotiva del coronavirus. Una riforma della scuola si fa, ripeto, senza legarla alla contingenza, e invece abbiamo letto di tutto: scuola digitale, rivoluzione informatica. In realtà abbiamo visto come in questo periodo – in cui la scuola ha fatto tutto ciò che era possibile per andare avanti – le diseguaglianze sono aumentate, i più deboli non sono riusciti a star dietro alla didattica a distanza. Non è stata la scuola della Costituzione, anche se ovviamente era difficile pensare che in queste condizioni lo potesse essere.
Quindi niente didattica a distanza in futuro?
Se diventa sostitutiva, no: la scuola è socialità. Se invece diventa uno strumento in più da affiancare a quelli tradizionali, va bene. La connessione digitale, ad esempio può essere utile, in alcuni casi, per stabilire un dialogo individuale con alcuni studenti, laddove la classe è necessariamente collettiva.
Ci sono stati secondo lei anche elementi importanti, positivi nella scuola del lockdown?
L’unico grande vantaggio di questo periodo è che ha messo a nudo le strutture portanti della scuola: consapevolezza e intenzionalità. Insegnanti e studenti si sono cercati con forza, siamo diventati tutti più consapevoli del ruolo centrale che ha la scuola per i bambini, gli adolescenti e per gli stessi insegnanti. Ad esempio, la formazione volontaria dei docenti sull’uso delle piattaforme che prima il 90 per cento di loro non conosceva ha veramente del miracoloso.