Quale modello di maternità propone la presidente del Consiglio Giorgia Meloni? Quella di una donna che porta la figlia Ginevra con sé al lavoro, nelle visite di Stato come quella in Cina, che vuole dimostrare che il suo incarico è compatibile con l’essere madre, così non ci saranno più scuse per coloro che usano questo come pretesto per non far avanzare le donne sul posto di lavoro.

In viaggio con la tata

Quello che non dice (e che non è stato raccontato) è che nessuna mamma può portarsi i figli al lavoro. Se lo può fare, è una privilegiata. E se anche le dovesse capitare di andare in missione con la prole al seguito in Italia o all’estero, poi ci dovrebbe essere almeno una tata che se ne occupa e se ne prende cura: quale lavoratrice può permetterselo? Giusto la presidente del Consiglio in viaggio ufficiale, non certo le comuni mortali. Perché per il resto delle persone non funziona così.

I papà sulle scalette

Bella comunque l’immagine di una donna al potere che porta la sua piccola con sé, ma perché non capita mai che sia un uomo, un ministro o un deputato a scendere le scalette dell’aereo con i bambini per mano? Il messaggio di Meloni conferma lo stereotipo dominante: è la mamma che si fa carico della crescita dei figli, del lavoro di cura, delle responsabilità. Perché la mamma è sempre la mamma.

E il papà dov’è? Perché si parla sempre di maternità e mai di genitorialità? Perché si mettono in mezzo sempre le mamme e mai i papà? Se qualcosa non va è sempre colpa della mamma, che come minimo era assente, se non peggio.

Ancora con questo “vetero”?

Ecco, questo è uno stereotipo, ma non da vetero-femministe, è uno stereotipo dei nostri tempi, che arriva dai tempi passati. Vetero è il fatto che ne debba ancora e ancora parlare, che si dia per scontato che la maternità è l’unica forma di genitorialità. Ma tant’è che questo governo, quello della presidente del Consiglio che rivendica il suo ruolo di donna e mamma e premier, sta mettendo in campo provvedimenti che potrebbero anche essere condivisibili ma fatti in modo sbagliato.

Il bonus mamme (con 3 figli)

Prendiamo il bonus mamme: un esonero dal versamento di contributi a carico delle madri con almeno tre figli, con lavoro a tempo indeterminato anche part time e in somministrazione, fino al 18° anno di età del figlio più piccolo. In via sperimentale e fino a fine anno, si applica anche alle madri con due figli. È pensato per colmare il gender pay gap, ovvero in questo caso il fatto che una donna diventata mamma non è più disponibile a fare gli straordinari, quindi è tagliata fuori da una parte di salario accessorio, ha problemi di conciliazione e poi anche di carriera.

Il problema è fare il primo

Ma è solo per le mamme con tre figli. In Italia il problema è avere il secondo, se non il primo figlio. Il terzo ormai riguarda una minoranza. Se si vuole davvero incidere sulla natalità bisogna insistere sulle condizioni per permettere alle coppie di mettere al mondo il secondo figlio, non il terzo. E poi è un bonus a tempo, non è strutturale, dato che termina a dicembre 2026.

Inoltre, si è scoperto che la misura presenta troppe contraddizioni: non è universale, visto che sono escluse le libere professioniste e le precarie, ed è anche meno generosa di quanto sembrava all’inizio.

Ma quali nidi?

Anche sul fronte dei servizi siamo molto carenti. Basta dare un’occhiata ai dati sui nidi. C’è il bonus, certo, che però è inefficace se non si creano asili lì dove servono di più, a partire dal Mezzogiorno. È strutturale la mancanza dei posti, che un Pnrr in forte ritardo avrebbe dovuto portare al 35 per cento del fabbisogno, mentre in molti territori stiamo molto al di sotto, al 25 per cento circa.

“Nidi gratis per tutte le famiglie” è stato lo slogan del governo, che è rimasto tale, uno slogan da propaganda.

Fuori dal mercato dopo la nascita

Resta il fatto che la maternità rappresenta una causa della caduta della partecipazione femminile al mondo del lavoro. L’indagine Inapp-Plus analizza cosa avviene dopo la nascita di un figlio alle donne under 50: “Accanto a due dati che indicano stabilità di condizione, il 44 per cento di continuità lavorativa e il 32 di permanenza al di fuori del mercato del lavoro, l’evento maternità ha tuttavia determinato un 18 per cento di fuoriuscita dall’occupazione e una ridotta quota di nuovi ingressi (7 per cento)”.

Guardando alle motivazioni, per oltre il 52 per cento la causa dell’uscita è legata a esigenze di conciliazione, il 19 per cento la collega a una valutazione di carattere economico e di costo-opportunità (la retta dei nidi privati), mentre il 29 per cento afferma di non lavorare più dopo la maternità a causa del non rinnovo o di licenziamento.

Conciliare è donna

E sempre in tema di conciliazione, molto ci dicono i dati sul part time. Dei quattro milioni 238 mila lavoratori che hanno un tempo parziale, il 57,9 per cento è involontario: è l’incidenza più alta di tutta l’Eurozona. Il 74,2 per cento è donna, una su tre del totale delle lavoratrici. Orario ridotto quindi, ma non per scelta. Il guadagno è proporzionato: 11.451 euro in media all’anno, ancora meno nel Mezzogiorno. Va peggio a chi ha un part time e anche un rapporto discontinuo: quando si verificano queste due condizioni il salario lordo si attesta sui 6.267 euro annui.

Fanalino di coda

Anche se la partecipazione delle donne al mercato del lavoro è in salita in tutto il mondo, l’Italia resta fanalino di coda dell’Europa, anche in termini di opportunità, stando a quanto rileva il World Economic Forum. Il Global Gender Gap Report 2023 dice che ci attestiamo al 93esimo posto su 146 Paesi per la partecipazione femminile e all’80esimo per la parità salariale (con le stesse mansioni). Meloni potrà anche viaggiare con sua figlia in Cina, ma le altre donne, mamme, lavoratrici?